[Seguito del reportage in due parti dedicato al Doutor. La prima parte qui]
Per tutti noi, fútbologi di ogni risma e provenienza, il Dottor Sócrates è una stella fissa. Un punto di riferimento, un’ispirazione.
Pubblicare un omaggio, nei giorni in cui ricorre il primo anniversario della scomparsa, è obbligatorio. Con i dettagli e la passione di Alessandro Gori, o Magrão riceve il tributo che merita.
Le divinità del fútbol ne abbiano tutta la cura necessaria.
La democrazia è un colpo di tacco.
La Redazione
di Alessando Gori
Un anno senza Sócrates
Doutor, filosofo, politico e anche straordinario calciatore
[Parte 2]
Democracia Corinthiana
Sócrates approdò al Corinthians nel 1978. Erano quelli gli ultimi anni di dittatura in Brasile e in tutto il paese si respirava un’aria nuova, piena di speranza e di una rinnovata attività politica. Nel 1981 il Corinthians era reduce da una stagione fallimentare ma l’anno successivo si insediò un nuovo presidente, Waldemar Pires, che scelse il sociologo Adílson Monteiro Alves come direttore tecnico della sezione calcistica. Fu un cambiamento epocale: insieme ai giocatori più politicizzati del club Adílson diede vita alla celeberrima Democracia Corinthiana, un movimento che rivoluzionò il comportamento dei calciatori dell’epoca. Principali protagonisti furono Wladimir, Casagrande e Zenon, ovviamente capitanati da Sócrates che divenne il simbolo incontrastato di quella straordinaria esperienza.
Nel Corinthians fu introdotta l’autogestione: tutte le decisioni del club venivano prese per maggioranza dopo una votazione alla quale partecipavano tutti, dal presidente ai dirigenti, giocatori titolari e riserve fino ai magazzinieri, e ogni voto aveva lo stesso peso.
Accompagnati dai motti «Libertà con responsabilità» e «Vincere o perdere, ma sempre con democrazia», si definivano gli orari degli allenamenti, la campagna acquisti e cessioni e, secondo alcune testimonianze, addirittura le formazioni. Ovviamente una delle prime decisioni sancì l’abolizione dei ritiri.
Pensare di ricreare un ambiente democratico attraverso un’autogestione totale all’interno di una squadra di calcio mentre nel paese esisteva ancora una dittatura militare sembrava una follia, ma quei visionari riuscirono ad attuare i loro propositi e l’aspetto più assurdo è che in quei due anni di esistenza funzionò perfettamente. Il Corinthians non solo vinse due campionati Paulistas (1982 e 1983), qualcosa che non accadeva da trent’anni, ma risanò anche i suoi debiti.
Tuttavia la Democracia Corinthiana si spinse oltre. In piena dittatura militare guidata dal Presidente-Generale João Figueiredo, cercava non solo di riflettere le ansie democratiche di una società in fermento, ma anche di usare l’enorme potere del calcio sulle masse per veicolare dei messaggi civici che non era così facile trasmettere altrimenti. Anticipando in qualche modo l’epoca delle sponsorizzazioni, in quel travagliato periodo la maglietta del Corinthians si fece portatrice di slogan politici, dal semplice ma totale «Democracia», a «Vogliamo votare il nostro Presidente» a «Diretas já» (il movimento civile che annoverava tra i suoi protagonisti Luiz Inácio Lula da Silva, Milton Nascimento, Gilberto Gil, Chico Buarque de Hollanda). Era quest’ultima una campagna alla quale partecipò attivamente anche Sócrates e che cercava di ottenere l’elezione diretta del primo Presidente brasiliano alla fine della dittatura (e non dal Parlamento, come invece spingevano i militari per orientare in qualche modo la transizione).
In quel momento tutti i più grandi campioni del paese stavano emigrando in Europa e O Doutor arrivò ad affermare che se fosse stata accettata l’elezione diretta egli avrebbe rinunciato all’imminente trasferimento alla Fiorentina. Non accadde, e Crâtes partì per l’Italia.
Arrivò a Firenze quasi fosse atterrato da Marte (o semplicemente dal Brasile di quegli anni) immergendosi controvoglia in un modo di concepire il calcio a lui completamente alieno. Per uno che era abituato ad allenamenti blandi, magari a ritmo di musica, il benvenuto fu una durissima preparazione precampionato con Picchio De Sisti come allenatore. Non si inserì mai nella squadra, della quale rimase sempre un corpo estraneo. Durò solamente una stagione, molto deludente, con 25 presenze e 6 reti, e ritornò subito dopo in Brasile dove militò per qualche anno nel Flamengo e nel Santos regalando ancora momenti di gioia calcistica.
Ebbe un ultimo sprazzo in nazionale ai Mondiali di México 1986, ma ormai gli anni migliori erano già passati. Nei quarti di finale il Brasile venne eliminato ai rigori dalla Francia di Platini e Sócrates sbagliò il suo tiro dagli undici metri. Fu quella l’ultima di 63 partite con la Seleção, condite da 25 reti.
Nel 1989 chiuse (peraltro senza quasi giocare) nel suo club degli inizi, il Botafogo di Riberão Preto. Poi nel 2004, all’età di 50 anni, per amicizia diresse per un mese il Garforth Town, squadra delle divisioni inferiori inglesi, disputando anche una dozzina di minuti contro il Tadcaster Albion. Dopo il suo ritiro esercitò la professione di medico nella sua città.
Anche suo fratello minore Raí (nato nel 1965) divenne un apprezzato calciatore che vinse tutti i titoli possibili con il São Paulo all’inizio degli anni Novanta per poi militare per cinque anni con il Paris Saint-Germain.
Alcool e sigarette
Sócrates si faceva costantemente accompagnare da birra e sigarette, altro paradosso per un medico. Qualcuno forse ricorderà Una vita da Goal, una serie di notevoli programmi di Gianni Minà andati in onda come presentazione dei Mondiali del 1986. Nella puntata dedicata a Zico e Sócrates, entrambi ritornati in patria al Flamengo dopo le alterne fortune italiane, O Doutor appariva come giurato al Carnevale di Rio e nel suo palco aveva a disposizione birra sempre gelata in quantità industriali. Durante una parte dell’intervista, appoggiato al palo di una delle porte della Gávea (il centro di allenamento del Flamengo), si intravedeva che appena fuori camera aveva sempre una sigaretta accesa.
La birra mancata
Durante un mio viaggio in America Latina, quattro anni fa, passai a trovare alcuni amici a São Paulo. Ero miracolosamente riuscito ad avere il numero di cellulare di Sócrates e riuscii a parlare con lui al telefono: era gentile e parlava ancora italiano. Ci mettemmo d’accordo per un’intervista il giorno in cui sarebbe sceso da Riberão Preto verso la megalopoli paulista per la sua canonica partecipazione a un programma settimanale di TV Cultura.
«Finisco alle nove di sera», mi disse. «Chiamami alle nove e un quarto e ti dico in quale bar ci troviamo a bere qualche birretta». Purtroppo all’ora prevista il suo cellulare continuava a rimanere spento, come tutta la sera e anche il giorno successivo. All’indomani partii dal Brasile. Speravo di poterlo ricontattare in un mio prossimo viaggio brasiliano, ma purtroppo quell’incontro non potrà più avvenire.
L’ultimo saluto
Nel pomeriggio seguente alla sua scomparsa si disputava l’ultimo turno del Brasileirão (il campionato nazionale brasiliano) e il Corinthians al “Pacaembu” si giocava il titolo contro il Palmeiras, uno dei suoi più acerrimi rivali. Il pensiero di tutti volò a Sócrates che quasi contemporaneamente all’inizio delle partite veniva sepolto nella sua Riberão Preto. Il risultato finale (1-1) unitamente al pareggio nell’altro derby tra Flamengo e Vasco regalava al Timão il suo quinto titolo nazionale. Con profonda emozione giocatori, tecnici e dirigenti avevano salutato Sócrates sul terreno di gioco nello stesso modo in cui lui esultava dopo una rete, con il braccio destro in alto e il pugno chiuso.
Obrigado, Doutor.
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[La prima parte di questo post è disponibile qui]
Sulla Democracia Corinthiana puoi leggere Essere campione è un dettaglio, cui è allegato un documentario sottotitolato da Fútbologia.
Dello stesso autore su questo blog:
La guerra è iniziata al Maksimir
I sessant’anni di Zico… e un po’ di Udinese Parte 1 e Parte 2
Il cugino carnico di Iniesta
Un anno senza Sócrates Parte 1 e Parte 2
La Crvena Zvezda, vent’anni fa
Il National Football Museum di Manchester
L’evoluzione del Clásico e il Barça come fenomeno glocale
L’emozione di Anfield
La passione per il Celtic
Alessandro Gori (Udine, 1970), giornalista freelance e da sempre appassionato di calcio, è malato di Balkani, Caucaso, America Latina, Catalunya ed Euskal Herria, e più in generale dei territori complicati e problematici. Sta preparando un libro di storie su “Un Altro Calcio”.
È laureato in Lingua e Letteratura Portoghese presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia con una tesi (in portoghese) su Musica Popolare e società in Brasile durante la dittatura: Chico Buarque e Caetano Veloso.
Mi permetto anche io di fare i complimenti ad Alessandro per l’ottimo doppio pezzo e ne approfitto per segnalare il post su Giap che, insieme a tante altre cose, ha dato un po’ origine a tutto:
“Il Socrate brasiliano nell’Italia degli anni 80” di Wu Ming che trovate qui http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=1379
Grazie anche da me, davvero, ad Alessandro Gori: ho due anni più di lui, e sottoscrivo tutto (da tifoso della Fiorentina, poi…). Grazie anche per le cose che non sapevo della sua biografia.
Da brividi l’ultimo saluto a Socrates da parte dello stadio e delle squadre.
Può interessare ai curatori e lettori di questo blog sapere che il Magrao fu la prima celebrità con cui ebbi un contatto ravvicinato di terzo tipo – se si fa eccezione, beninteso, per l’apparizione pontificia di Gianni Morandi al balcone della sua casa nella natia Monghidoro, cui fui portato come in processione dalla Madonna alla tenerissima età di 4 anni.
Durante il suo breve transito fiorentino, nell’anonima stagione 1984-85, Socrates comparve sulle pagine del giornalino scolastico (titolato “1984”, ça va sans dire) del Liceo “Agnoletti”, cui rilasciò una lunga intervista a una ridotta pattuglia di fortunati della quale feci orgogliosamente parte.
Non so come capitò, ma Socrates divenne compagno di bisbocce dei genitori di una mia compagna di classe, il che da una parte ci mise nella condizione di prevedere facilmente le sue più nefande apparizioni agonistiche con la casacca viola (dati i dettagliatissimi resoconti che ricevevamo principalmente il venerdì e il sabato mattina, dei quali soprattutto ci interessava l’ora di ritiro e il tipo di alcoolici bevuti), e dall’altra ci permise di organizzare un impensabile scoop giornalistico.
Non fu comprensibilmente facile distillare i nomi dei privilegiati che avrebbero intervistato il campione carioca e inaspettatamente vi fui incluso non per la divorante passione calcistica che mi contraddistingueva, ma in quanto titolare della funzione di “Commissario del popolo allo sport” della sezione FGCI di Sesto Fiorentino, cui ero doverosamente iscritto. Nell’attivo che precedette la spedizione a Grassina, dove dimorava Socrates, fu democraticamente decisa la batteria delle domande, inevitabilmente incentrate sui risvolti socio-politici della professione di calciatore e sulla fama di giocatore impegnato di cui Socrates era abbondantemente circonfuso.
A malincuore, ma in osservanza del primato allora inattaccato del centralismo democratico, accettai di buon cuore e mi accodai alla rappresentanza che fece rotta verso la villa del brasiliano, dove l’intervista, con impeccabile rispetto del mandato ricevuto, fu condotta dal ben più consapevole segretario della sezione, che rispettosamente chiese l’autorevole parere del Tacco di Dio sulla dittatura brasiliana, sulla spaventosa condizione delle favelas, sull’ingerenza yankee in America Latina, sulla teologia della liberazione e via delirando.
Purtroppo, ho ricordi assai vaghi di quell’incontro. Rammento solo una certa trasandatezza generale, perfettamente in linea con il personaggio, che ogni tanto degnava di uno sguardo distratto i numerosi pargoli che scorazzavano per il giardino, mentre la moglie li chiamava inascoltata dalla finestra.
Ero evidentemente poco lucido e sicuramente in balia di un sogno a occhi aperti: lo guardavo e mi pareva di vederlo in maglia giallo-oro, caracollare apparentemente lento da destra a sinistra e scagliare un fendente imprendibile sotto il “sette” di Daseav, e poi festeggiare lo sconosciuto Eder che segnava gol memorabili, e dopo gridare ordini sul prato arroventato di Barcellona agli increduli compagni, mentre i figli di Bearzot gli preparavano la festa; ponevo una domanda di cui non mi interessava alcunché e scrutavo i suoi piedi, cercando di capire come avevano fatto a beffare Zoff sul primo palo dopo un breve scatto che aveva tagliato fuori Scirea: avrei voluto chiedergli cosa aveva pensato al 5′, al 12′, al 25′, e poi nell’intervallo, e ancora al 68′ e infine al 74′, e ancora dopo quando gli Azzurri ormai li tagliavano a fette in contropiede e chi aveva veramente incornato il pallone che Zoff bloccò sulla linea (Leandro? Oscar? Paulo Isidoro?), che non avevo visto in diretta, perché incapace di reggere la tensione avevo spento la TV e mi ero rifugiato in camera con le porte chiuse.
Avrei voluto chiedergli cosa si dissero alla fine della partita, se piansero, se Toninho Cerezo aveva conservato la sua tipica espressione gioiosa anche dopo il novantesimo, chi aveva urlato contro chi, se Zico era triste perché consapevole di aver gettato l’ultima occasione di vincere un Mondiale, se il temerario Telé che aveva replicato il centrocampo più offensivo della storia del football dai tempi dei 5-numeri-dieci-5 di Zagalo aveva provato a giustificarsi o se la democrazia corinthiana era stata importata anche nella Selecao e alla disfatta aveva fatto seguito una pacata discussione sugli errori commessi, sulle cause e i responsabili, con le opposte fazioni schierate come in un parlamento nello spogliatoio del Sarria; e ancora se dopo la sconfitta tifarono Italia o semplicemente spensero il collegamento per non volerne più sapere, se ebbero paura a tornare in Brasile ancora con le stimmate dei bellissimi ma perdenti.
Invece, assistetti compuntamente alla raffica di domande serie e importanti, alle risposte ponderate e significative, e non imparammo niente di come sempre il dolore si giustappone alla gioia, né potemmo rivivere le inebrianti emozioni del Mundial spagnolo.
Oppure, è tutto un ricordo incerto e sfumato, come quello cui si abbandona De Niro sul tavolo della fumeria di oppio, fra sogno e realtà.
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