I sessant’anni di Zico… e un po’ di Udinese (parte 2)

[Riceviamo e pubblichiamo. Ieri 3 marzo 2013 il Galinho ha compiuto 60 anni. In due puntate il ricordo di Alesssandro Gori che qualche anno fa lo ha intervistato. La prima parte di questo articolo è maggiormente centrata sull’Udinese di quegli anni.]

Zico
di Alessandro Gori

Dieci anni fa, nel marzo 2003, mi trovavo in Giappone con una borsa di studio per giornalisti. Il Galinho – così era chiamato fin da ragazzino, quando zampettava sui campi da calcio magrissimo come un galletto – da pochi mesi era diventato selezionatore della nazionale nipponica con l’obiettivo di qualificarsi per il Mondiale tedesco del 2006, come poi accadde. Nei locali della Federcalcio si respirava un’aria nuova, tutti dicevano che Gico-san, come lo chiamavano laggiù, aveva portato un nuovo modo di lavorare.

L’intervista a Tokyo

Dopo una breve attesa negli uffici della Federcalcio giapponese l’incontro con l’Idolo, semplice e disponibile come sempre, leggermente ingrassato rispetto a quando giocava, ma sempre in forma. Sul suo volto subito appare un sorriso sapendo che qualcuno è arrivato fino qui dal lontanissimo Friuli.

Arthur Antunes Coimbra Zico – Quali sensazioni ti sono rimaste del tuo periodo a Udine?
Gori – Conservo ancora un ottimo ricordo della mia esperienza friulana. Sono sempre stato trattato benissimo da quelle parti. Sono specialmente contento di un aspetto: che la gente ha apprezzato il mio modo di essere e la mia famiglia. Sono aspetti che ti segnano.

– E sul campo invece?
– Credo che anche sul campo corrisposi alle attese. Fu veramente un peccato che la dirigenza dell’epoca ebbe dei problemi e le lotte tra il presidente Mazza e Dal Cin indebolirono la squadra. Dal Cin aveva un’ottima visione del calcio italiano e progetti per costruire una buona squadra. Quando fu costretto a lasciare il club eravamo tra i primi in classifica ma poi fummo abbandonati a noi stessi, includendo anche problemi di arbitraggio. Mazza non capiva niente di calcio.

– Del secondo anno invece, a parte il tuo infortunio?
– Per come il club venne trascurato fu già un ottimo risultato non essere retrocessi in Serie B. Se Dal Cin non fosse andato via sicuramente avremmo potuto fare bene e vincere qualcosa.

– Sei ancora in contatto con qualcuno di quell’epoca?
– Sì, soprattutto con Gerolin, De Agostini, Causio…

– Era il massaggiatore Casarsa il tuo maestro di friulano?
– Sì, ricordo ancora qualche frase, come Mandi o Anin a bêvi un tajùt di vin!

– Poi rientrasti in Brasile ma nel 1985 ritrovasti sulla tua strada tale Márcio Nunes, terzino del Bangu e la sua entrata assassina…
– Fu l’incidente più grave della mia carriera. Subii ben cinque operazioni chirurgiche al ginocchio e altre di minore entità. Nel Mondiale in Messico dovevo preparare l’arto per due ore prima di poter iniziare l’allenamento con gli altri.

– Eri ritornato nel tuo Flamengo. Cosa rappresenta per te questo club?
– Il Flamengo per me è sempre stata come una seconda casa. C’ero arrivato ancora giovanissimo da dove vivevo, nel quartiere di Quintino. Fin da bambino ero tifoso del Flamengo ed ebbi la fortuna di giocare in un periodo in cui conquistammo praticamente tutto, inclusa la Coppa Intercontinentale nel 1981 qui a Tokyo battendo per 3-0 il Liverpool.
Dopo il mio ritorno dall’Italia vincemmo il campionato brasiliano nel 1987 e di quella squadra quasi tutti passarono per la Nazionale. C’era Sócrates, ma anche giovani cresciuti in casa che poi si sarebbero affermati, come Jorginho, Leonardo, Bebeto, Aldair. Purtroppo successivamente il club ha vissuto lunghi momenti difficili a causa di alcune pessime gestioni.
[Nello scorso dicembre alla presidenza del club rubro-negro è stato eletto Eduardo Bandeira de Mello, sostenuto anche da Zico, NdR].

– Segui il calcio italiano?
– L’ho sempre seguito. È cambiato molto. Penso che l’Italia abbia aperto la porta a troppi stranieri spesso dimenticandosi di formare giovani, specialmente attaccanti e centrocampisti. I club esagerano comprando stranieri soprattutto in queste posizioni. Credo che gli stranieri siano necessari, ma solo quelli che apportano qualità. Le società dovrebbero essere più sensibili perché i giovani italiani finiscono per perdere gli stimoli sapendo che comunque non troveranno posto in una grande squadra.
Anche perché ormai si prediligono i giocatori che corrono a quelli che sanno giocare la palla. Il calcio è cambiato molto. Ma quando hai una buona squadra è il talento che risolve le situazioni, sono i talenti che ti fanno vincere, non la tattica! La tattica è solo uno strumento per far crescere il talento. Purtroppo oggi ci sono pochi giocatori talentuosi ma quando ne hai in mano qualcuno dovresti lavorare per loro.

– Forse manca lo spazio per un certo tipo di giocatori?
– Infatti. Si vede per esempio che oggi nelle categorie giovanili si preferiscono i giocatori alti. Se io avessi iniziato a giocare oggi non so se a tredici o quattordici anni avrei avuto qualche possibilità. Molte nazionali hanno là davanti un centravanti da 1,90. Questo perché nel calcio di oggi spesso si segna e si vince su palle inattive, dal calcio d’angolo, punizioni o semplicemente buttando la palla in area.

– Anche in Brasile?
– Anche da noi molto è cambiato e vengono fatte queste preferenze. Mi auguro comunque che in Brasile le qualità tecniche non si perdano mai.

– Come arrivasti a giocare in Giappone?
– Un italiano, Giorgio Galeffi, aveva organizzato qui a Tokyo delle sfide Europa contro Sudamerica per calciatori già in pensione. Avevo già lasciato il calcio nel 1989, due anni prima di giocare quella partita, ma un uomo d’affari mi vide e pensò che potevo ancora giocare.

– E tu?
– Io non ero interessato. Avevo smesso con il calcio giocato e avevo appena lasciato l’incarico di Ministro dello Sport in Brasile. Ma lui venne a Rio per comunicarmi la proposta del colosso siderurgico Sumitomo [proprietario dei Kashima Antlers, la squadra giapponese in cui giocò Zico nel periodo 1991-1994, NdR]. Pensai che mi volesse contattare per lavorare come tecnico, ma lui mi spiegò che era proprio per giocare. La squadra militava in Seconda Divisione e se si fosse piazzata tra le prime due avrebbe partecipato al primo campionato professionistico giapponese della storia che si sarebbe disputato nel 1993. Così iniziai di nuovo a prepararmi, mi allenai con il Flamengo, arrivammo secondi in campionato e io fui il capocannoniere.

Zico nel Kashima Antlers

Zico nel Kashima Antlers

– All’esterno dello stadio del Kashima c’è addirittura una tua statua.
– Quando arrivai avevo 38 anni ma la differenza tecnica era immensa e bastava un minimo di condizione fisica per riuscire. Oltre a giocare mi chiesero di dare le indicazioni per realizzare l’intera struttura del Kashima affinché potesse diventare una potenza del campionato giapponese. In un anno la Sumitomo costruì uno stadio e un centro di allenamento, delle strutture meravigliose usate anche durante la Coppa del Mondo del 2002. Vi portai alcuni giocatori e già nel primo anno il Kashima fu campione. Ancora oggi continua ad essere all’avanguardia nel calcio giapponese [nel 2003 l’allenatore era Toninho Cerezo, NdR].

– Così iniziò il professionismo in Giappone?
– In poco tempo il Giappone con la sua dedizione, impegno e forza economica, è riuscito a diventare Campione d’Asia [nel 1992 e poi nel 2000 sconfiggendo in finale l’Arabia Saudita per 1-0, titolo ripetuto nel 2004 con Zico in panchina, 3-1 alla Cina in finale, e confermato anche nel gennaio 2011, sotto la guida di Alberto Zaccheroni, NdR]. Con quei successi è diventato un punto di riferimento in questo continente producendo nel contempo un miglioramento anche degli altri paesi asiatici.

– Ma ora il livello del campionato è sceso?
– Non direi. Credo invece che il valore calcistico del Giappone si sia stabilizzato. Se i calciatori più importanti giocassero qui sicuramente porterebbero negli stadi più tifosi. D’altra parte in Europa possono ottenere un’esperienza che sarà molto preziosa anche per la nazionale.

– Ormai qui non vengono più stranieri famosi?
– Per iniziare questo difficile percorso il Giappone investì molto in campioni che costavano parecchio. Fui tra i primi a crederci, poi arrivarono anche Lineker, Ramón Díaz, Littbarski, Leonardo, Jorginho, Dunga, Stojković, Hristo Stoičkov, Massaro, Schillaci, e tutti diedero un importantissimo contributo di qualità. Ma oggi nel calcio mondiale ci sono meno giocatori importanti sui quali investire.

– Quali le difficoltà del tuo incarico?
– Sono le stesse di qualsiasi selezionatore nazionale, non avere tempo per lavorare, ancor più con questi giocatori in Europa che non hai mai a disposizione, e sono loro i titolari della nazionale! È così difficile riuscire ad amalgamare una squadra.

– Problemi con la lingua?
– Non parlo giapponese ma la lingua del calcio è universale. Quando arrivai non avevo interpreti: parlavo mescolando portoghese, inglese, giapponese ma quando scendevamo in campo funzionava. All’epoca i giocatori giapponesi venivano all’allenamento con penna e quaderno per prendere appunti su quello che spiegavo e prima di scendere in campo li ripassavano, come fossero a scuola. Quanto tempo è passato da allora!

Zico con la Selecao contro l'Argentina

La scheda

Arthur Antunes Coimbra nasce a Quintino, un sobborgo di Rio de Janeiro (Brasile) il 3 marzo 1953 da seu Antunes e dona Matilde ed è il più piccolo di sei fratelli. È sposato con Sandra de Sá, da cui ha avuto tre maschi: Júnior, Bruno e Thiago.

Nel 1967 entra nelle giovanili del Flamengo, la squadra più popolare di Rio in cui rimane fino al 1989, a parte la parentesi friulana. Tre volte eletto miglior giocatore sudamericano (1977, 1981, 1982), secondo alcune statistiche con i rossoneri cariocas disputa 826 incontri ufficiali segnando 539 reti e conquista 7 campionati di Rio, 4 campionati brasiliani e nel glorioso 1981 la Coppa Libertadores (tre finali contro i cileni del Cobreloa) e l’Intercontinentale schiantando per 3-0 il grande Liverpool, proprio a Tokyo.

Dicono anche che sia il giocatore che più reti ha segnato al Maracanã (333).

Con l’Udinese gioca due campionati: con le sue 19 reti in 24 partite è vicecapocannoniere nel 1983/84. Ne segna altre 3 in 16 incontri nella triste stagione successiva minata da vari infortuni.

Debutta nella nazionale brasiliana nel 1976 segnando all’Uruguay una rete su punizione, la sua specialità. Con la Seleção segna 53 reti in 78 gare ufficiali e disputa tre mondiali (1978, 82, 86). In quelli del 1998 ne è il coordinatore tecnico.

Dal 1991 al 1994 gioca per la squadra giapponese dei Kashima Antlers, di cui successivamente diviene direttore tecnico. Nel luglio 2002, all’indomani dei mondiali nippo-coreani, diventa selezionatore della nazionale giapponese con la quale nel 2004 vince la Coppa d’Asia. Il Giappone di Zico riesce anche a qualificarsi per i mondiali del 2006 in Germania, viene inserito proprio nel girone del Brasile, ma viene eliminato al primo turno.

Dopo quell’esperienza Zico capisce che può continuare la carriera di allenatore e viene contattato dal Fenerbahçe: con la compagine turca che presenta in campo diversi brasiliani, tra i quali anche lo straordinario Alex e successivamente Roberto Carlos, vince il campionato già al primo anno (2007) e nella stagione successiva raggiunge i quarti di finale della Champions.

Nel settembre 2008 firma per il Bunyodkor, la squadra della famiglia al potere in Uzbekistan in cui gioca Rivaldo, ma vi rimane solo per 4 mesi.

Successivamente allena anche il CSKA di Mosca e l’Olympiakos, per poi tornare in Brasile dove da maggio a ottobre 2010 è direttore della sezione calcio del Flamengo. L’ultima esperienza, terminata nello scorso novembre dopo 15 mesi, come CT dell’Iraq.

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È disponibile la prima parte di questo articolo.

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Alessandro Gori (Udine, 1970), giornalista freelance e da sempre appassionato di calcio, è malato di Balkani, Caucaso, America Latina, Catalunya ed Euskal Herria, e più in generale dei territori complicati e problematici. Sta preparando un libro di storie su “Un Altro Calcio”.
È laureato in Lingua e Letteratura Portoghese presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia con una tesi (in portoghese) su Musica Popolare e società in Brasile durante la dittatura: Chico Buarque e Caetano Veloso.

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