Neoromantici e Premoderni

sui muri contro il calcio moderno?!

Quando comincia il calcio “moderno”? E dove finisce quello “romantico”?
Kaka che si riduce l’ingaggio da 10 a 4 milioni per tornare al Milan è calcio romantico? E gli eventi di Salernitana-Nocerina fanno parte di quello moderno?

Le domande non sono retoriche, chiarirsi sarebbe utile. Nella lingua comune, una certa sloganistica onnicomprensiva deborda in tutti gli ambiti del discorso pubblico, anche quelli teoricamente più elevati, figurarsi dunque se ci si può meravigliare che questo avvenga nei discorsi del pallone.

Certo, la confusione è grande. La perdita di senso, per progressivo svuotamento di parole e concetti, incombe. Inoltre la realtà, come ovvio, incalza e propone fatti e circostanze la cui lettura richiederebbe strumenti adeguati e vivacità culturale, per poter giungere a posizioni nette, non pacificate, da tradurre poi in scelte concrete. Comportamenti consapevoli, specie se collettivi.

Ma non solo siamo lontanissimi da tutto questo, non conosciamo nemmeno le domande.

Manifesto del Mondiale 1934

Manifesto dei Campionati Mondiali di Calcio, Italia 1934

Nel 1934 l’Italia vinse il suo primo mondiale in casa, in un torneo manipolato dal regime, di cui si ricorda in particolare lo scandalo dei quarti di finale contro la Spagna. Tre gol annullati agli spagnoli, una mattanza in campo. Alcuni riportano che Mussolini stesso avesse selezionato gli arbitri, e che intervenne per impedire alla Spagna di schierare il leggendario portiere Ricardo Zamora.

Dieci anni prima, nel ’27, il Torino aveva vinto lo scudetto a seguito di una partita truccata, un derby per giunta, e il Bologna aveva chiuso al secondo posto. Leandro Arpinati, a un tempo presidente della Federcalcio e podestà fascista di Bologna, decise di istituire un’inchiesta (pilotata) che determinò la revoca dello scudetto granata.

Era moderno quel calcio?

Cinquant’anni fa i presidenti delle società di serie A erano battezzati dalla stampa nazionale come i “ricchi scemi”. I bilanci delle squadre erano sempre in rosso e loro ripianavano ogni anno le perdite di quel giocattolo costoso e in perenne riparazione. Sciocchi. Si trattava degli Agnelli, dei Moratti, dei Lauro, che sul pallone edificava un intero ciclo politico da viceré di Napoli e della destra nazionale filomonarchica. Allora il pallone apriva porte, procurava incontri, affari. Favoriva, anticipava e affiancava la nascita di quel ‘capitalismo relazionale’ di cui oggi molti discutono come caratteristica o piaga della nazione. Era il pallone di Rivera, Mazzola e Sivori.

Era moderno quel calcio? Romantico? Erano davvero ‘scemi’ quei ricchi?

foto di Achille Lauro allo stadio

Achille Lauro allo stadio

Oggi ci sono gli Agnelli, i Moratti, i… Berlusconi. È un altro calcio, è tutto cambiato.

Nel 1964 uno dei primi scandali di doping portò a un epico e feroce scontro tra Bologna e Internazionale, con penalizzazioni date e poi revocate, che sfociarono in violenze e blocchi stradali, e una polemica andata avanti per anni. Almeno una volta il Napoli fu retrocesso in B per via delle invasioni di campo dei suoi tifosi nello stadio Ascarelli, al Vomero. Bei tempi quelli, il mito, la leggenda. Il calcio di una volta.

Eppure è vero, molte cose sono cambiate. Il fatto è che semplificare non ci aiuta a capire. E Joao Havelange era criminale quanto Joseph Blatter.

Merda d'artista di Piero Manzoni

Merda d’artista di Piero Manzoni

Il calcio, oltre ad essere un gioco meraviglioso, è anche contraddizione. Sportiva, culturale, sociale, politica. Contiene l’alto e il basso, il barrio e la finanza, Blatter e i bambini, Messi e Doni. È per questo che è così simile ai territori in cui alberga, ne riproduce i nodi irrisolti, le qualità, le opacità palesi oppure occulte. È uno dei motivi per cui lo amiamo.

Se non si parte da qui è difficile cominciare a ragionare.

Per necessarie esigenze di sintesi è giusto procedere in forma schematica con alcuni punti che consideriamo fermi, nei limiti della nostra visione, e che elenchiamo di seguito.

  1. La struttura apicale del nostro sistema calcio – impianti, dirigenze, governo della Lega e della Federazione, organi giurisdizionali – versa in condizioni disastrose e retrograde.
  2. Le politiche della sicurezza varate, sintetizzabili nella strategia della Tessera del Tifoso, si rivelano fallimentari e piene di contraddizioni logiche e giuridiche, come gli eventi di Salerno e le decisioni di prefetti e questori dimostrano nel modo più ampio.
  3. Le organizzazioni dei tifosi mostrano, in una sconfortante quantità di casi, la medesima arretratezza e miopia dei soggetti menzionati al punto 1.
  4. Andare allo stadio a vedersi una cazzo di partita, per uno qualunque è diventato un inferno kafkiano di obblighi psico-burocratici.
  5. Per avanzare, almeno di un pochino, ogni discorso critico deve essere anche autocritico. Se no non si va da nessuna parte.

Sarebbe dunque, davvero arrivato il momento di sgomberare il campo da diversi equivoci, di infrangere alcuni tabù decennali, di guardarsi con occhi un po’ nuovi per immaginare prospettive più avanzate. Almeno provare.

Palloni e croci sulla spiaggia, Brasile, 2013

Equivoci

Cosa deve fare un Club professionistico? Cosa chiediamo alla Società a cui teniamo e ai suoi dirigenti? Sono i risultati sul campo l’unico parametro, la nostra richiesta fondamentale? Esiste dell’altro? Può esistere dell’altro, o si tratta di inutili fantasie?

Ha senso ipotizzare un ruolo sociale, con conseguenti obblighi, per le società del calcio professionistico e semiprofessionistico? Per quanto ci riguarda crediamo di sì, e molto anche.

Al club che seguo e amo da sempre chiedo.

Alla squadra, che mi faccia divertire, facendo sempre del suo meglio, dando quello che ha, senza risparmiarsi. È ovvio che preferisco vederla vincere, ma più di tutto gioco e generosità in campo mi appassionano.

Alla società e ai suoi dirigenti, che non mi facciano vergognare di sostenerli, e più di ogni altra cosa che investano nel territorio di appartenenza, in particolare dove più forte è il disagio, in strutture sportive e sociali per l’inclusione e lo sviluppo delle potenzialità dei giovani locali. Inoltre chiedo una pianificazione non isterica delle strategie del club e della squadra.

Alla tifoseria organizzata, che sostenga la squadra con calore, passione, e anche qualche bella coreografia ben studiata. Che dia elettricità ai nostri, e un po’ di miedo escenico agli avversari. Ma poi chiedo anche, oggi, nel 2013, dentro questa crisi, di essere attenti ai territori da cui provengono, ai loro bisogni reali anche fuori dal pallone. Che non pretendano biglietti e merchandising, ma investimenti nei quartieri e per i ragazzi.

A tutti gli altri tifosi, che quando vanno allo stadio si portino la ragazza o i figli. O tutti e due, o tre…

foto St Pauli supporters

Tabù

È possibile provare a fare ragionamenti laici e talvolta autocritici sulle questioni che riguardano tifoserie organizzate e ultras? Si può trattare il fenomeno nella sua complessità e non come un unicum totalizzante, guardandoci dentro e distinguendo circostanze e comportamenti? Si possono fare domande tipo: Qual è la credibilità di soggetti che espongono altisonanti striscioni e dichiarazioni contro il ‘calcio moderno’ schiavo del business e poi se la squadra non va in Champions piantano enormi casini e inscenano contestazioni nei campi di allenamento? Siamo d’accordo nel dire che a prescindere dalle altrui scelte, l’assurda pantomima messa in scena a Salerno, è una cosa che non si può guardare comunque la si pensi? Si può dire che la “strategia dei cori razzial-territoriali” di parecchie curve è una demenziale cazzata fascista? Che vi sono diverse opacità, dietro le quali girano parecchi soldi e svariati interessi politico-criminali?

E infine: è possibile oggi, nel 2013, dentro questa crisi, che l’orizzonte dei soggetti del tifo organizzato sia composto esclusivamente dalle forze dell’ordine e dallo Stato? Che la società e i territori da cui provengono non abbiano alcuna importanza? Che si faccia a pacche con gli sbirri ogni domenica, quando dal lunedì al sabato i propri vicini di casa non riescono a svoltare la giornata o sono sotto sfratto senza che nulla accada?

Sono un infame, a porre tali interrogativi?

È da infami pensare a un ruolo propositivo per le realtà del tifo organizzato?

foto delle proteste in Brasile, 2013

Brasile, 2013

Prospettive

Sarebbe bello, ancorché utopico dato il contesto, poter ipotizzare la nascita dal basso di una bozza di riforma del calcio professionistico che metta al primo posto la responsabilità sociale dei club, come vincolo per ottenere la licenza di partecipazione ai campionati. La richiesta di un investimento annuale pari a un 5 o 10% del fatturato sui territori di riferimento, per l’inclusione e contro il disagio, attraverso la pratica sportiva e la promozione delle realtà esistenti in quartieri e periferie di centri urbani e metropoli. Sarebbe bello fare casino per imporre, a club e istituzioni, la realizzazione di impianti e strutture, frequentabili e accessibili, sia per la fruizione che la pratica sportiva. Li farei volentieri dei blocchi stradali. E se il caso anche degli scontri, stile Confederation’s Cup. O per un giardino a Istanbul.

Perché non conta tanto se fai a pacche. Conta il per cosa.

Spero che ci siamo capiti.

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Wu Ming 3 & xho (Christo)

35 thoughts on “Neoromantici e Premoderni

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  2. ellepuntopi

    Cari Christo e Luca (e Luca e Christo, per non dimenticare nessuno) come al solito e anche in questo caso le affinità futbologiche sono affettive ed elettive, da sempre combattiamo ognuno coi suoi mezzi e nei suoi spazi – che spesso e volentieri si sovrappongono e si intersecano – per opporre una dialettica negativa rivoluzionaria al romanticismo totalizzante del bel calcio dei tempi passati.
    Come ho scritto anche nell’altro inutile commento, quello al post di John Foot su Internazionale, il calcio è nato moderno, quindi è una battaglia inutile e di retroguardia il combattere contro una presunta modernità del contemporaneo.

    Che i bei tempi non sono mai esistiti ce lo ripetiamo spesso, e siamo sempre d’accordo, ma su questo punto torno dopo.

    Ora mi preme sviluppare una critica al vostro post, la stessa che ho mosso su Internazionale, ovvero che una certa urgenza vi ha impedito di storicizzare la situazione. Tralasciando il ridicolo che io che non sono nessuno parli di Storia a voi a John Foot, che la materia la insegna/te, andiamo nel merito: rappresentare gli ultrà come un corpo sociale (benché sfaccettato, of course) che abbia come unico orizzonte il cordone delle forze dell’ordine senza avere prima analizzato quali processi storici determinano questa situazione, è analisi fine a se stessa.

    L’ultrà arriva a questa contrapposizione in sé e per sé, e quindi non fertile, dopo anni di leggi repressive, in cui lo stadio è utilizzato come laboratorio di repressione.

    Se da un lato abbiamo il Daspo trasportato dalle curve alle piazze come in Italia, e dall’altro l’ultrà che insegna al nuovo proletariato non organizzato a tenere la piazza e a difendersi dalla violenza sbirresca, come in Egitto, Turchia o Brasile. Vuol dire che il confronto tra ultrà e fdo non è un orizzonte statico come tale, come invece *appare* essere adesso in Italia, ma la contingenza di un processo storico in atto.

    Lungi da me difendere la retorica ultrà della bandiera, del territorio e dell’onore, non perché la giudichi bene o male ma semplicemente perché non mi appartiene, non riesco a sottrarmi a questo processo di storicizzazione prima di incazzarmi con loro.
    Allo stesso modo è controproducente liquidare la violenza ultrà al tedio domenicale e negare loro una presenza nel territorio, anche qui come se si trattasse di una caratteristica innata di questo corpo sociale.

    Nella Milano degli anni ’70 e ’80 da cui provengo l’ultrà – almeno quello rossonero 🙂 – lottava contro gli sfratti, aiutava il quartiere negli espropri proletari ai supermercati, era in prima fila nei cortei a dare e prendere le mazzate. Anche qui c’è stato un processo storico: il medesimo riflusso delle piazze e dei quartieri negli anni seguenti, che ha portato l’estrema destra a occupare questi luoghi.

    Da qui nascono le alleanze tra curve e società, gli affari sopra e sottobanco, la remunerativa gestione del merchandising e delle trasferte – quest’ultima forse finita con l’introduzione della Tdt – la vendita delle sostanze ricreative in curva, e altre schifezze.
    E’ verissimo che oggi le contestazioni (etero)dirette dalla curva non hanno nulla a che vedere con l’impegno dei ragazzi in campo o con la maglia sudata, ma spuntano all’improvviso, a tutela degli affari di qualche capetto.

    E questi sono comportamenti da fascisti, da narcocamerati, non da ultrà.

    Se oggi le curve sono occupate da loro, da qui bisogna ripartire per riprendersele. Altrimenti si rischio che anche la giusta critica mossa dall’ultrasinistra alla violenza-fine-a-se-stessa degli ultrà s’intersechi pericolosamente con la critica borghese, che vorrebbe il modello inglese dei turisti, del silenzio e delle celebrità, funzionale al modello televisivo.

    Per questo sono totalmente d’accordo con voi: sia nella critica al calcio romantico sia al mondo ultrà, come nelle prospettive per un calcio diverso, radicato socialmente nel territorio a livello di squadra, dalle giovanili al professionismo, e di tifoseria.
    Ma per arrivare a una prospettiva rivoluzionaria contro il calcio romantico, che rigetti ogni passatismo e ogni salvifica celebrazione dell’ultrà in quanto tale – che allo stato delle cose è pura merda – imho bisogna lavorare sui processi storici e sui conflitti sociali che hanno determinato e ancora determinano questa situazione, e non farsi prendere dalla comprensibile urgenza della critica.

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  3. Alessandro Bezzi

    In Italia, la storia del calcio è storia della società contemporanea; in entrambe le situazioni ci sono responsabilità diffuse per il drammatico punto d’arrivo. Il capitalismo paternalista dei presidenti non si discosta tanto da quello delle cordate, per salvare aziende statali privatizzate e ridotte al fallimento; l’incoerenza del tifoso (consumatore, elettore) è la stessa che ha mantenuto (e mantiene) una classe politica che ha mandato allo sfacelo il paese; e lo Stato ha sempre avuto un comportamento ambiguo, guardando allo sport come ad un’utile distrazione (il panem et circenses) o come ad un’ ottima arena dove sperimentare pratiche di controllo sociale, agendo o reagendo a quanto succedeva nelle curve. Nessuno, inutile dirlo, ha mai preso in considerazione l’ipotesi di fare autocritica; nè ultras che spesso hanno confermato i pregiudizi che la stampa aveva ricamato su di loro, né presidenti e società concentrate solo alla performance economica (figlia dei risultati e non certo dell’etica) nè governi più attenti a rilasciare concessioni edilizie e decoder che a controllare discretamente un fenomeno di massa senza pari.

    Le curve, come giustamente ricordate, erano certamente più attive politicamente 30 anni fa; ma il disimpegno che le ha investite è lo stesso che ha colpito la società civile, sempre più atomizzata e disinteressata al bene comune. E se dovessimo trovare uno spartiacque tra calcio romantico e calcio moderno, per me è inevitabile pensare all’avvento delle pay tv, che in pochi anni hanno preso il controllo della situazione. Galeano parlando dei Mondiali in Messico del 1986 ricorda lo strapotere delle emittenti televisive, e negli anni ’90 questo fenomeno si fa irreversibile in tutti i maggiori campionati. Da un punto di vista sociale, è lo stesso, devastante impatto che hanno le tv private nell’Italia degli anni ’80’. Disimpegno, strapotere dei media che iniziano a dettare l’agenda, assenza di una regolamentazione seria.

    Tornando al tema principe (cosa fare?) è ovvio che il problema va ben oltre le curve. Perché se protestiamo per una penalizzazione ma non ci preoccupiamo di una TAV scavata accanto a casa, quello che era un momento di aggregazione diventa un momento di distrazione controproducente per chi lo pratica e per la società. Sperare che il calcio ci risolva i problemi più gravi (lavoro) è assurdo, specie se lo si considera un momento di evasione da una realtà per molti difficile. Purtroppo, in troppi casi le curve non sono in grado di ripensarsi come soggetti attivi e integrati nel territorio di riferimento.

    Investire nelle realtà locali o destinare parte dei profitti al territorio di riferimento sono idee sacrosante, e sarei felicissimo di vederle applicate. Ma una società lo farà solo se obbligata, cosa piuttosto difficile vista la debolezza del legislatore ed il servilismo della Figc. La realtà è che le grandi squadre sono oramai multinazionali con uno scarsissimo legame con il territorio, a meno di ritorni in termini di marketing, ribadendo quindi gli squilibri economici vigenti. Con realtà più piccole il discorso cambia: il rapporto con il territorio è più netto, e la prossimità permette di affrontare insieme problemi legati al quartiere o al paese di riferimento; non riesco ad immaginarmi un ruolo dello Stato in questo processo (perlopiù di autorganizzazione), né una applicazione concreta al calcio maggiore. Ovviamente, spero di sbagliarmi; per questo sostengo la vostra proposta, sperando di aver portato qualche spunto utile.

    Un saluto
    @AleBezzi

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  4. Trappola del Fuorigioco

    Complimenti per il pezzo. Analisi molto approfondita, e gli spunti proposti sono molto interessanti, avete messo carne al fuoco per parlarne per 3-4 ore 🙂 (ammesso che parlare di queste cose per 3-4 ore sia difficile).
    Vorrei concentrarmi, però, sull’unica debolezza del pezzo: la conclusione.
    Sostanzialmente, nell’ultimo paragrafo fate intendere che la soluzione, l’unica possibile, sia fondamentalmente diventare la Germania. Ovvero applicare il modello 50%+1, management societario dal basso, radicamento nel territorio eccetera.
    Secondo me è bellissimo quanto irrealizzabile.
    Mi spiego meglio, la serie A è al punto di svolta: o prende la piega inglese (Thorir simil Glazer) o muore. La terza via è quella che guarda alle strutture sviluppate in Germania. Spero che l’obiettivo di lungo periodo sia quest’ultima soluzione, ma nel breve periodo qual è la vostra visione?
    Sull’argomento, gli ultras pensato di essere iper-vessati dalla normativa vigente, mentre tutti gli altri pensavo che gli ultras siano liberi di fare quello che vogliono e chiedono maggiori vessazioni. Ovviamente, come dite giustamente voi, parlare di ultras come blocco monolitico è stupido. Probabilmente si dovrebbero affrontare le diverse situazioni con un’analisi ad hoc. Questa proposta, portata all’estremo, vuol dire il questore che prende decisioni insieme a rappresentati del tifo organizzato ed alla societa.
    Ma in tutta franchezza non credo che siamo vicini neppure a questo.
    Questa digressione mi porta ad un altro punto di discussione. Esiste (ancora) la violenza nel calcio? Il tifo organizzato come si pone nei confronti della sicurezza negli stadi?

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  5. gino

    Condivido tutte le giuste demistificazioni presenti nell’articolo. Mi viene in mente un adesivo fatto dalla “mia” curva con scritto “no al calcio moderno” con la maglia della squadra usata negli anni 80 ma con lo sponsor sopra: lo sponsor sulle maglie era romantico solo negli anni 80? Mo invece è calcio moderno? Mi pare che ci sia una retorica spesso fuorviante e talvolta inutile fatta anche con una concezione un po’ fascista dell’identià. È verissimo che seguire il pallone è diventato uno scristo assurdo di burocazie e inutili vessazioni come pure il fatto che sono loro che ti spingono sul terreno dell’illegalità quando fanno quelle regole bizantine e assurde. Così come è vero che se ne fottono, sono anzi per lo più contenti, se non vai allo stadio e ti fai l’abbonamento a Sky o Mediaset. Riguardo le curve che pure frequento da anni non è che possiamo osservare il fenomeno come una cosa unica. Io personalmente ho visto di tutto, dagli scontri tra ultras della stessa squadra vinti dai clan della camorra per gestire la curva al disinteresse dei clan e al ritorno dei gruppi “vecchio stile” etc. Ci sta un po’ di tutto ma è sempre sano fare dei distinguo anche perchè quando emergono i gruppi organizzati di destra in curva siamo i primi a dovercene andare dallo stadio. In questo ultras e padroni del calcio raggiungono lo stesso obiettivo.

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  6. Peppe Di Martino

    Ciao, ho letto con grandissimo piacere questo articolo, davvero, quando si parla in questo modo del calcio è una delizia. Ciò che proponi tu mi trova d’accordo al 100 %, sarebbe veramente bello trovare un punto d’incontro tra le società calcistiche e i territori cui hanno riferimento. Un calcio più umano, più giusto. Complimenti.

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  7. luca

    Grazie ai commentatori, prima di tutto.
    Provo a dire due cose, senza tirarla lunga. Questo non è un pezzo sui fatti di domenica a Salerno. E neppure sugli ultras. Entrambi stanno dentro il testo, ma non ne sono il centro.
    L’oggetto principale è il linguaggio, l’uso di certe parole, la semplificazione a oltranza, la coazione a ripetere. Il mondo delle tifoserie, e degli ultras, non è un unicum. Giudicarne i comportamenti come se fosse tale è una cazzata. E comunque non mi interessa proprio giudicare, ma analizzare, se possibile accrescere le capacità di lettura di fenomeni e dinamiche sociali.
    Seguo il calcio da 45 anni. E lo metto in relazione con tutto il resto. Questo per me è Fútbologia.
    Storicizzare sempre. Sono d’accordo, e di più. Le cose vengono da lontano. Sempre. Mi sembra che nel testo sia abbastanza esplicito. Si potrebbe, forse dovrebbe, scrivere un mucchio di pagine su ciascuno dei temi accennati. Ma poi chi le legge? A che serve?
    Infine. In Italia, oggi, tutto è utopico. Mica solo il modello tedesco nel pallone. Anche rifare le strisce pedonali.
    Bisognerebbe obbligarli dite. Ovvio.
    A calci nel culo. Chiaro.
    Utopia. Certo.
    Statev’ bbuono.
    L.

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  8. Bluto

    Un articolo che mi è molto interessato e piaciuto, su twitter si direbbe #ESGC. C’è però una cosa che non mi è chiara: definite “demenziale cazzata fascista” la reazione delle curve alla questione della discriminazione territoriale. Sono venuto a conoscenza delle sanzioni riguardo ai cori discriminatori a livello territoriale in curva ma quella dell’Olimpia Milano, squadra di basket che seguo. Un tizio di fianco a me si lamentava che i tifosi di Brindisi, prima partita di campionato Brindisi-Milano, avessero urlato cori contro Milano e i milanesi continuamente ma che a differenza della curva del Milan (mi pare) non sarebbe stata chiusa. Quando chiesi che cori fossero stati, mi rispose con i soliti “milano milano vaffanculo” e “solo la nebbia avete solo la nebbia” e cose simili. Ovviamente io non penso che per questi cori si debba chiudere una curva ma non mi pare che i cori definiti di discriminazione territoriale sia facile distinguerli da questi, quindi francamente avevo apprezzato il fatto che molte curve si insultassero rivendicando la propria chiusura. Per di più io, francamente, la vedo così, chiunque entri nel palazzo dell’Olimpia, per l’ora e passa di partita, lo attacco, lo faccio per sostenere la squadra e per mettere in difficoltà gli avversari, francamente non sempre sono educato, Domani giochiamo contro lo Strasburgo, e sarà possibile che li chiami teroni, settimana scorsa contro Bamberg è sicuramente successo. C’è un coro della curva dell’Hockey Milano che sostiene che nelle partite in casa contro Bolzano nel palazzo si senta puzza di wurstel e crauti. Io non credo sia razzismo ma a rigor di logica non andrebbero chiuse anche la nostra curva e quella dell’Hockey Milano?
    Io non capisco più quale sia il discrimine, francamente, se insulto sono automaticamente un razzista? Io non credo, per me è solo un modo per sottolineare che, secondo me, la mia squadra è più forte delle altre anche se perde e pure se perde male e se non è più forte e più, punto. Finita la partita è finito tutto lì. Ovviamente non c’è solo questo nel mio tifo, ma anche e per la maggioranza cori a favore dell’Olimpia, e non c’è solo questo nel tifo, anzi. Con il mio ragionamento non posso e non voglio giustificare cori razzisti (che secondo me si differenziano perché attaccano il giocatore e non la maglia che indossa) o striscioni come quello dei veronesi negli anni ’90 che incitava Chirac a fare i test nucleari a Napoli. Sono francamente pensieroso riguardo a questo tema, io sono quello, orgogliosamente, che rompe le balle a chi fa il verso della scimmia ai giocatori neri, ce ne sono anche nel basket nonostante le squadre siano composte a volte interamente e per svariati minuti solo da giocatori neri, e non vorrei cadere nel razzismo io per primo. Per questo sono rimasto stupito quando ho letto nell’articolo che la reazione è ritenuta una cazzata demenziale, ma ancora di più, fascista. Magari non ho capito nulla di quello che avete scritto, o della questione in se, ma che passi per cazzone e demente mi sta anche bene, fasista proprio no.

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  9. Daniele

    Leggo pezzi come questi e mi aiutano a focalizzare pensieri che mi girano nel capo da sempre. Il calcio è sempre stato moderno, ora più che mai m’è chiaro: se mi aggrappo a figure romantiche come Sollier, Socrates (il mio amato Doutor) o ancora il magico Gonzales è proprio perchè tali figure erano calate in un contesto moderno, in un concetto moderno di calcio. Altrimenti chissà se sarebbero emerse, almeno ai miei occhi, con tanto fulgore le storie, il carisma e il fascino di questi calciatori, di questi uomini. Il calcio di cui parliamo qui è utopico? Renderlo ucronico? Se l’utopia è quella che descrive Galeano, quella che ci spinge a camminare, ben venga, così il culo per strada continuiamo a tenercelo. Magari così sì che lo rendiamo ucronico, e scriviamo un finale alternativo a quello cui sembriamo destinati. Come si fa? Sticazzi, facile per niente, di fango, e so’ educato, da spalare ce n’è tanto. A casa, a scuola, al lavoro, e pure allo stadio, last but not least. Ma se anche nella squadra del paesello in cui vivo un ragazzo di 30 anni e poco più se ne va ” perchè oh, ‘e mi danno dugent’euro di più quell’altri” allora sticazzi davvero, di che stiamo a parlà, figurati se i professionisti si lasciano solo sfiorare dal pensiero di socializzare la loro esperienza. Se a Grosseto ancora dalla bocca di tutti sbrodolano le parole ” Camilli (anpassàn sindaco di Grotte di Castro e candidato senatore con Fratelli d’Italia) non si tocca, c’ha portato a mezz’ora dalla serie A…è un grande…il Comune non gli vole dà quello che chiede, ‘ste merde” e poi invece il Comune cala le braghe e spende’ 4 milioni e passa d’euri per rifargli lo stadio, con conseguente rincaro delle tariffe ( tanto pe’ fa’ un esempio) dell’asilo, allora di che stiamo a parlà, se poi lo stesso babbo che ha pronunciato le suddette perle di saggezza dopo dieci minuti bestemmia perchè non sa dove trovà i soldi pe’ mandà il figliolo alla materna. Sonetti diceva che ci s’ha le gramignole nel capo, e tutti i torti ‘un ce l’aveva. Il calcio non è nè un punto d’arrivo nè di partenza, è parte di un processo che va rivisto e rivisto bene. Perchè da quel figliolo che non è potuto andà all’asilo perchè il su’ babbo preferiva che si rifacesse lo stadio, da grande, ma che si può pretende’?
    Buona vita, un abbraccio a tutti. Daniele @vhreccia

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  10. Cristina

    A proposito di tabù ed equivoci “…quando vanno allo stadio si portino la ragazza …”. Bah a me allo stadio non mi ci deve portare nessuno, ci vado da sola.
    Il pezzo è bello ma attenzione la frase “razziale” rischia di farti diffidare il blog.
    Cristina

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    1. Christo Presutti Post author

      Tu, come le altre donne che vanno allo stadio, fai benissimo, e giustamente non hai bisogno che ti accompagni alcuno.
      Sono i tifosi (maschi), in proporzione – lo sappiamo – la stragrande maggioranza, che auspico non abbiano problemi a percepire anche in maniera diversa quella comunanza.

      C_

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      1. cristina

        bhè un pochino sono scettici, ma al primo commento tecnico azzeccato si tranquillizzano.
        ciao

  11. @Cafeponci

    Post che stimola riflessioni attuali e opportune e che, come già detto, solleva temi che sarebbero argomento di un luuungo dibattito.

    Detto questo la parte più “scottante” per me resta quella dei tabù. C’è un passaggio del citato post di John Foot su Internazionale che mi ha colpito molto

    “Gli ultrà sono interessati a una cosa sola: se stessi”

    Una provocazione che dovrebbe scuotere perché colpisce nel segno a prescindere dall’appartenenza politica di una curva. L’eccessiva autoreferenzialità del mondo ultras in talune situazioni ha raggiunto un livello tale da farne un corpo estraneo e isolato dal resto della popolazione che vive(va?) lo stadio.

    Perché, come avete correttamente fatto notare, la disastrosa politica della TdT un risultato l’ha ottenuto: ha estremizzato lo scontro ultras/sbirri e ha fatto sparire dagli stadi i cosiddetti “tifosi normali” che nauseati e sfiancati da divieti, cavilli e moduli hanno alzato bandiera bianca preferendo il divano e Sky ai gradoni di uno stadio vecchio, pericoloso e fatiscente.

    E poi: onore, rispetto, mentalità. Tutte parole che fanno parte di una cultura un po’ cameratesca e fascisteggiante che, ma qui parlo ovviamente per me, non mi ha mai entusiasmato (e si badi bene: qui le categorie dx e sx sono relative) come non mi ha mai entusiasmato la filosofia del “ce l’ho piu lungo” che vede gli ultras autocelebrarsi come “più tifosi degli altri” e che delega loro diritti e azioni (dialogo a quattr’occhi con allenatore e giocatori per esempio, leggetevi l’intervista a Giampaolo che c’era oggi su Repubblica che è molto interessante) che mai sarebbero consentite e tollerate a tifosi “normali”. E’ giusto?

    Per guardare all’estero due realtà esemplari secondo me sono rappresentate da Celtic e Athletic Bilbao. Quando si parla di queeste due società non pensiamo, come da noi, agli ultrà, ai vari gruppi, alla mentalità e al codice d’onore (tutti concetti molto mafio..ehm italiani…) Pensiamo all’espressione, attraverso un club, di un territorio e delle sue peculiarità. Se dici Bilbao non pensi a una curva pensi al San Mames, un corpo unico. Il club è il patrimonio di una comunità, tutta la comunità. Con le sue rivendicazioni e i suoi ideali. E la struttura societaria ne tiene conto. Questo è il modello da seguire. Un lato romantico del calcio che c’era, c’è e, soprattutto in determinate realtà, difficilmente morirà. C’è un’immagine che rende perfettamente l’idea: Rod Stewart, uno dello star system, un divo, che al gol del suo Celtic contro il Barca, piange inebetito e commosso. E lì che il calcio unisce, trascende le barriere e divisioni sociali, le annulla. Ma questo è possibile solo se il Club ha una storia e un’identità forte e condivisa. Forse è su questo che dovremmo lavorare in Italia.

    Soluzioni? Il modello inglese come è stato già detto molte volte non è certo l’esempio da seguire mentre quello tedesco, che pure sarebbe un’enorme passo in avanti per il nostro calcio, sembra irrealizzabile. Perché in fondo ha ragione Alessandro: il problema siamo noi italiani, la nostra cultura, il nostro modo superficiale e limitato di affrontare le grandi questioni.

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    1. Angelo

      Sul modello inglese ci andrei piano perché è la migliore realizzazione del calcio globe-trotter, dove le squadre sono delle multiversity, aziende, imprese che aprono franchising altrove, spettacolo, quello spettacolo che Mourinho esaltava in quanto prodotto perfetto. Come sono stati allontanati gli hooligans? Aumentando i prezzi dei biglietti: per qualsiasi partita da qui a un mese prezzo più basso 70 pounds. Noi in curva paghiamo 20 euro. C’è un passaggio del post che mi ha stuzzicato ed è quello sul ruolo pubblico e sociale dei team professionistici, sperando che questo non si traduca in mecenatismo da fondazione.

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      1. em

        70 pounds?

        Per vedere qualsiasi partita?

        Ecco i prezzi più bassi per le prossime partite in casa di tre squadre di Premier League, scelte (quasi) a caso:

        Fulham vs Swansea City – £30
        Swansea City vs Newcastle United – £35
        Newcastle United vs Norwich City – £27

        Ovviamente ci sono anche i prezzi molto più alti. E forse per voi queste sarebbero esempi di squadre minori che non importano (ma non lo dite mai a Newcastle, eh?). Però rappresentano il calcio inglese nell’insieme molto meglio del Chelsea, del Manchester United, del Arsenal ecc. Mi sembra che il calcio inglese nell’insieme non sia sempre ben conosciuto o ben capito.

        (Per dire la verità, trovo pure questi prezzi troppo cari.)

      2. Christo Presutti Post author

        Scusa Em ho visto tardi che il commento era da sbloccare.

        Certo che 30/40 pound sono ancora tanti. Nessuno può negare che la politica dei prezzi ha contribuito a modificare la base sociale del pubblico in UK.

        In Italia la situazione è diversa, le strutture sono quasi ovunque fatiscenti ed è esiguo il numero di squadre che riesce a portare spettatori allo stadio. Rientra nella problematica dei diritti TV e di come incidono sul bilancio dei singoli club. Il discorso è ampio e meriterebbe approfondimento.

      3. Giovanni

        Scusa ma cosa dici? Biglietti da 70 pound? al city la prossima partita col Victoria di champion sono 34 pound x i posti anche quelli a bordo campo.e x una partita di Premier saranno 25 pound. Non di più

  12. @robinisnotdead

    Cari Christo e Luca, lo avete fatto. Accendere una miccia. Perché il fetore di merda o, al meglio, stantio era insopportabile da un pezzo. Ribadire che “i bei tempi non ci sono mai stati”, rompere con le narrazioni reazionarie che nel calcio hanno la forma della difesa degli antichi valori, delle vecchie maniere e quant’altro. Ritorna la questione della puzza solo a parlarne ed infatti è roba di destra.
    Gli interrogativi che ponete non sono da infami (solo la contraddizione tra denuncia della mercificazione del calcio e ossessione del risultato non mi sembra si possa attribuire ai comportamenti del tifo organizzato, ma sia piuttosto una deriva tipica del tifoso occasionale, da pay per view, ma potrebbe essere una percezione distorta la mia, romanista-centrica – “mai schiavi del risultato” in tempi di assenza permanente de gioie :).
    L’innesco di un ragionamento autocritico riguardo al considerare il mondo ultras come un unicum mi sembra il contributo più delicato e necessario del vostro pezzo. L’operazione è potenzialmente pericolosa per il rischio di finire a scremare un fenomeno che è oggetto di una strategia di repressione durissima in ultras buoni e cattivi.
    La ricerca di un nuovo linguaggio, la definizione di un orizzonte condiviso che incorpori quelle forme di autorganizzazione e calcio popolare che stanno già agendo da anticorpi (mi vengono in mente tra i tanti, Ardita S.Paolo e Atletico S.Lorenzo con l’azionariato popolare nelle strade dei rioni di Roma;, Venezia United, MyROMA e altri supporters trust) mi sembra la strada per rendere percorribile questa operazione di analisi/lettura del fenomeno ultras senza incorrere nella trappola dei buoni/cattivi. Un processo lungo da non condurre sotto l’assedio della cronaca.
    E’ n’operazione fútbologica. Daje tutt*!

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  13. Pingback: Neoromantici e Premoderni - Sport People : Sport People

  14. @zeropregi

    E se la smettessimo con la retorica del “calcio moderno”?
    E se la smettessimo di pretendere dagli ultras di essere quello che vorremmo che fossero?
    E se facessimo tutti un passo indietro e guardassimo il calcio da un’ottica diversa?

    Sarò breve, per quanto è impossibile essere bravi quando c’è così tanta carne al fuoco.
    Una cosa però va precisata: basta di ragionare e parlare degli ultras con gli stessi stereotipi di 30, 20 o 10 anni fa.
    Il mondo ultras è cambiato. Per colpa dei Pisanu e dei Maroni, certo, ma anche per colpa degli ultras stessi.
    Anzi per colpa, a volte, tanto quanto per scelta degli ultras stessi.
    Perché i ragionamenti, di un fenomeno sociale così importante, non possono essere scevri dalla realtà quotidiana che si vive.

    Ma procedo per punti:
    Basta col “calcio moderno”. Sono almeno 25 anni che il calcio si è trasformato. Il passaggio ad essere Spa e poi l’avvento delle pay-tv hanno dato il colpo finale a una trasformazione che probabilmente era inevitabile.
    Ma la cosa grave, insopportabile, che i primi a farne le spese e ad adeguarsi alla trasformazione sono stati gli stessi tifosi.
    Alla maggioranza piace avere la maglia col numero e nome personalizzato, il poter vedere ogni partita, tutte le partite, fino alla nausea. La telecamera negli spogliatoi, il canale della propria squadra del cuore, siti internet, radio h24, giornali sportivi. Amano vivere il calcio sempre e dappertutto. Sfiorano il voyeurismo. Se pensate che in una curva, come la sud romanista, dove non si vede un cazzo dove stai stai, c’è gente che si lamenta al grido di “abbassa quella bandiera, famme vede la partita!”. Famme vede che? La partita? E da quando dalla curva si vede la partita?
    I tifosi sono quelli che affollano gli store, che hanno subito la tessera del tifoso e spesso anche gradito “perché noi non abbiamo niente da nascondere”, non battono ciglio davanti alla fila dei tornelli. Al massimo sbuffano. Ma loro sono tifosi e quindi pensano che sia “il sacrificio” per la propria squadra.
    O vogliamo parlare delle derive ultras che ha trasformato il “movimento” (soprattutto negli anni 90 fino a inizi duemila) in un gigantesco affare per piccoli capetti, a volte legati alla criminalità, altre volte no.
    Ora tutto questo non c’è più. Inutile continuare a parlarne. Probabile che ci sia ancora chi lucra vendendo biglietti omaggio ricevuti dalla società oppure organizzando qualche trasferta. Ma sono casi isolati.
    Le leggi Pisanu/Maroni hanno sciolto i gruppi ultras come neve al sole. Probabile che fosse anche inevitabile. D’altronde i gruppi ultras nascono negli anni 70 quando la società era completamente diversa. Quando ci si organizzava ed autorganizzava a scuola, a lavoro, nei quartieri. E quindi perché no allo stadio? E ora chi si organizza più?
    E quindi, l’onda del casualismo, nata negli anni 80 in UK (a dire il vero anche un po’ prima) ha travolto anche l’Italia e non solo. E’ la nuova realtà del tifo moderno. Una realtà che si confà perfettamente alla società che viviamo.
    E quindi se la piazza contagiava lo stadio, una forma simile avviene anche ora. Anzi forse avviene il contrario, è più il casualismo a contaminare la piazza o quantomeno ci sono affinità importanti: anonimato, un abbigliamento non identificabile e che quantomeno rende irriconoscibili. Le nuove forme aggregative del resto tendono alla creazione di gruppi ristretti e chiusi che non il contrario. Del resto è una storia che parte da lontano, anche questa. E non mi dilungo per non perdere il punto di vista.
    La curva che vivo e che osservo da tifoso è una curva che non ha più “capi” identificabili. Che non ha rapporti con la società. Che non vende materiale dei gruppi perché “i gruppi organizzati” non esistono più. Non organizzano trasferte, si muovono in auto (o in treno ma pagando), portano al massimo qualche “pezza”, marchio di fabbrica, rivolto soprattutto agli altri gruppi casual ultras. Zero riferimenti. Del resto con delle leggi che hanno inasprito le pene e creato anche la via del reato associativo per gli ultras stessi è il modo più intelligente per difendersi.
    Questo avviene a Roma ma anche in moltissime altre piazze d’Italia, da Napoli a Verona passando per Genova sponda rossoblu. In A come in C. Certo magari ora è anche una moda un po’ fighetta, almeno per alcuni, ma è la nuova realtà.
    A me non dispiace oltretutto. Ma io non conto, c’ho pure ‘na certa.
    Tralaltro non capisco perché i nostri gruppi ultras non dovrebbero essere parafascisti. L’identità curvarola, del gruppo, della banda, attinge anche a quella cultura ma soprattutto perché in una società razzista come la nostra, lo stadio dovrebbe essere luogo neutro? C’è razzismo al cinema o a teatro, dove passano film od opere dai contenuti sciovinisti e razzisteggianti, non capisco perché lo stadio non dovrebbe esserne contagiato.
    La mia non è una difesa d’ufficio del mondo ultras ma è solo un ragionamento che possa smantellare i luoghi comuni. Perché siamo stanchi noi tifosi di calcio dei luoghi comuni, come sono stanco della retorica da sinistra del “riprendiamoci le curve”. Ma per farne cosa? E dove eravamo “noi di sinistra” tutti quando il laboratorio stadio della repressione continuava a sperimentare leggi e pene?
    Se le nostre tifoserie, i nostri gruppi organizzati non sono come quelli egiziani o turchi, che riescono ad essere anche protagonisti nella società stessa e nei movimenti di rivolta è semplicemente perché le nostre forme organizzative sono diverse. Ma soprattutto perché non sono neanche forme ultras le loro. Non lo dico con demerito ma semplicemente perché sono cose diverse. Come del resto è spesso possibile vedere nei cortei “importanti”, quelli ad alta tensione, componenti ultras nostrane partecipare attivamente.
    (Non solo a Genova 2001. E chiudo qui per non aprire la parentesi sul come “i movimenti” hanno interagito e accolto queste “presenze”)
    Il problema è che continuiamo a sognare forme organizzative che non ci appartengono: una piazza Tahir in Italia non è riproducibile. Però abbiamo avuto la nostra Acerra, dove i gruppi ultras campani erano in prima fila nello sfidare le FDO nell’eterno gioco dell’ACAB. Così stanno i fatti. E lo dico da osservatore che finge di fare il sociologo da strapazzo.
    Lo dico senza astio verso nessuno ma semplicemente perché se non riusciamo a capire cosa ci attraversa, difficilmente è pensabile di interpretarne il senso. E lo dico probabilmente perché è il momento di svuotare anche di importanza tutto quanto. Forse a quel punto potremmo produrre momenti diversi, ma si inizia dai quartieri per arrivare allo stadio e difficilmente viceversa.

    PS
    scrivo ste parole a pochi giorni dalla presentazione del doc sul Fc United of Manchester.
    E lancio la domanda che ognuno di noi “contro il calcio moderno” dovrebbe farsi:
    sareste pronti a fare come gli ex tifosi del Manchester? Io credo proprio di no.
    In tutta onestà.
    Daje.

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    1. Christo Presutti Post author

      Trovo giusto quanto scritto da ZeroPregi, e non vedo contraddizioni al contenuto di questo articolo. Per questo aggiungo ancora due righe all’idea di partenza.

      Quando me la prendo – e Luca con me, ma ora sto scrivendo da solo – con la retorica del “Calcio Moderno”, non dismetto l’evidenza di come, in particolare negli ultimi anni, il pallone abbia subito forti trasformazioni, o di quanto sia lampante il voyeurismo de «la telecamera negli spogliatoi, il canale della propria squadra del cuore, siti internet, radio h24, giornali sportivi».

      L’oggetto del mio rifiuto è la ricerca di un mito delle origini, di una purezza originaria caratterizzata da armonia e concordia, di una bellezza pacificata di un tempo che fu che è stato progressivamente offuscato dagli incessanti attacchi di forze estranee, dei nemici, degli «altri» che si sono infilati e confusi in mezzo a noi e che ora vanno isolati e cacciati. Mi rifiuto, per esempio, di sostenere l’idea che ci fosse un calcio migliore non inquinato dal potere politico e da quello finanziario. Mi rifiuto di accettare le retoriche semplificate del pallone oramai corrotto dal denaro, dagli scandali, dalle scommesse, dal doping, come se tutto questo non partecipi ontologicamente delle sue contraddizioni da sempre. Sia chiaro, accettare l’esistenza delle contraddizioni non vuol dire prenderle per buone e giustificarle.

      Le cose cambiano, lo sappiamo, e i cambiamenti storici non avvengono in maniera lineare. La storia e le sue narrazioni hanno sì la cardinalità del continuo, ma non procedono in parallelo e a velocità costante. La storia, il suo corpo ramificato e multiforme, subisce in tempi e luoghi diversi cesure, accelerazioni, retromarce, cambi di direzione.
      In quest’ottica giudico le trasformazioni degli ultimi 20/30 anni come il risultato di discontinuità violente e per questo più evidenti. La mia generazione può isolarne almeno tre più palesi e tra loro intrecciate: la sentenza Bosman, l’impennata degli ingaggi dei calciatori e l’ingresso prepotente della payTV nei modelli di fruizione.

      Ma tutto questo non segna la nascita definitiva di un «calcio moderno», come non lo ha segnato il fascismo che ne ha fatto a un tratto macchina di propaganda, o come non lo ha segnato il primo arrivo delle televisioni. Allo stesso modo non lo segneranno le trasformazioni che verranno quando, chessò, ci saranno 22 arbitri in campo o i calciatori indosseranno tessuti smart capaci di twittare – per dire – il loro livello di testosterone o l’erezione del pene.
      Quando anche si dirà – «cazzo, non è più il Twitter di una volta».

      C_ (xho)

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  15. Artefatti

    E’ tutto molto interessante. Il tema e ogni singolo commento.
    Ma la sensazione che ne ricavo è in definitiva una sola: lucida impotenza.
    Lucidità: perché l’analisi è completa. Perché ormai conosciamo tutto, ogni singolo aspetto di quello che è l’indotto calcio, sotto ogni punto di vista. Siamo (noi tifosi, clienti, spettatori, etc.) perfettamente coscienti dell’ingranaggio nel quale ci muoviamo.
    Impotenza: perché non siamo in condizione di cambiare nulla di tutto questo, neanche un solo grado della rotta.

    Se l’intento dell’articolo era quello di suscitare un’analisi dello stato di fatto, ebbene, credo ci sia poco da aggiungere. Chapeau.
    Se invece si intendeva ricavare una minima percezione di come sia possibile “ri-canalizzare” il potenziale del mondo Ultras secondo nuove e più moderne aspettative…beh, una risposta appare evidente. “Ultras” è un termine sorpassato. Il movimento che identificavamo attraverso questo termine non esiste più, dissolto, disgregato dagli eventi. Il processo non è stato neanche doloroso (mirabile l’analisi di Zeropregi), è semplicemente accaduto, e si è lasciato osservare da tutti noi.

    L’espressione Ultras, nell’essenza originaria, ora sembra appartiere più a piccole realtà, molto genuine e sincere, che muovono piccoli passi nelle strade delle nostre città. Il cosidetto Calcio Popolare. Di tutto il resto non si ha più notizia. Il temine resta funzionale solo alla gran parte degli organi di informazione, e serve ad etichettare quella roba là… quella che ha a che fare col calcio e col tifo, ma anche no. Un essere vivente senza radice e senza foglie, un’entità di fantasia.

    Personalmente identifico la nascita del calcio attuale – non lo chiamo moderno, è semplicemente diverso da prima – nel giorno in cui un presidentissimo scese su di un prato col suo elicottero recando “olandesi” in dono. Partendo da lì, questo “calcio” ha condensato desideri e aspettative, fino a divenire una delle prime entità finaziarie del paese. E come tale è stato trattato dal potere: finanziariamente, politicamente. Punto.
    Solo nei nostri pensieri ha continuato a vivere in modo emozionale, forte e genuino. Tanto che neanche un mastodontico susseguirsi di scandali e nefandezze ne ha intaccato l’appeal. Sappiamo tutti di nutrire affetto per un parassita che si nutre di noi, ma continuiamo a volergli bene, tale e quale a prima. Ogni tanto ne avvertiamo il cattivo odore, certo, ma chi sceglie di vivere vicino alla discarica, prima o poi ci fa il naso.

    La mia, personalissima, verità… è che da qualsiasi angolazione si guardi, non si ha percezione di quale siano le entità in gioco. Gli Ultras, chi? Il Calcio, quale?

    Nella mia condizione di vecchio ed abituale frequantatore del calcio, ho anche radicato la convinzione che questo immenso ingranaggio ha una sua funzionalità…
    sociale, strumentale. E tutto questo, qualunque siano le nostre intenzioni, ci vede come semplici spettatori paganti.

    Me la sono posta tante volte la domanda… Ma chi te lo fa fare?
    Ormai manco mi rispondo più. So di essere malato. Tratto il calcio alla stregua del fumo.

    E’ comunque un piacere e un sollivo leggervi, fratelli in fede 🙂

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  17. robydoc

    Sia detto col massimo rispetto possibile ma il commento di Aloi è molto criticabile. Nel senso che ribadisce – aggiungendo semplicemente “globale” a “moderno” tutto quanto è criticato nel post. La differenza sarebbe quindi tra “moderno semplice” e “moderno globale”. E quello che segue, conseguenzialmente, è proprio quanto mi pare si stia cercando di confutare e cioè che sia esistito un calcio senza “crisi e blatterismi scurrili” che fosse “incapace di propagarsi dettando tempo libero, ricorrenti fenomeni di divismo planetario, agenda dei mezzi di comunicazione” e che funzionasse per “veicolare valori e modelli occidentali” eccetera. Insomma mi pare che Aloi sposi l’idea di un calcio “cambiato” mentre per me l’interesse del post sta nel dire una cosa più o meno alla Kurt Weil e cioè che “la bellezza (e la schifezza…) nasce anche oggi; come sempre del resto”. In più io capisco che ognuno ha la sua idea di calcio e che è cosa buona e giusta che non coincidano ma quest’idea del fair play applicato al pallone l’ho sempre trovata assurda. Se c’è uno sport poco elegante questo è il calcio, la cui epopea sta certamente dalle parti di Pelè e Maradona ma anche dalle migliaia di persone del tutto negate per qualsiasi attività sportiva che però appresso un pallone e giocando sporco hanno trovato e offerto scampoli di vera felicità. E lo hanno fatto imbrogliando (l’arbitro se è il caso, ma cos’è mai una “finta”?) e irridendo (il tunnel?), speculando e sporcando (catenaccio e falli che adesso si chiamano tattici ma nel Cile cos’erano?) non volteggiando e incantando. E poi anche questa storia dei procuratori andrebbe quanto meno problematizzata. Sono rozzi, incolti, furbacchioni, tutto quello che volete. Ma a parte che non credo debba piacerci questa critica “classista” (sono dei miliardari alla Garzia Marquez, poveri che hanno fatto soldi, non ricchi: meglio 1000 Raiola che un Della Valle) prima di loro i calciatori erano delle cose, né più né meno. Anche ora sono delle “cose” ma almeno hanno i soldi che sono tolti non certo alle iniziative sociali ma ai presidenti. Qualsiasi tetto d’ingaggio arricchirebbe di più le società, mai capita questa idea.
    L’intervento non è tanto contro Aloi – lo prego di credermi – ma il problema è che Aloi ma chi racconta calcio, anche criticamente a tanti, mi sembrano un po’ pigri, a loro agio verso la rassicurante logica “culturalista”. E’ l’Italia, l’educazione, il fair play (borghese…) che non c’è, e ovviamente le curve criminali. In questo senso trovo importante la sua attenzione e spero non me ne vorrà per le critiche, ma quando si scrive di fretta magari non si stemperano bene i toni.

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  19. Daniele

    …volevo solo precisare che lo stadio Ascarelli non si trovava al Vomero ma nei pressi della ferrovia, ovvero al rione Luzzatti, tale stadio era di proprietà della A.C. Napoli e si chiamava “Vesuvio” e fu ribattezzato Ascarelli in seguito alla morte del presidente avvenuta a pochi giorni dall’inaugurazione dello stesso. Mutò ancora nome in Stadio Partenopeo sotto il fascismo e fu infine distrutto dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Attualmente, dove sorgeva l’ostadio, insiste un rione denominato per l’appunto, rione Ascarelli. Saluti

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  20. ESNAIDER

    alla mia squadra chiedo solo una cosa: vincere, in secondo luogo se possibile giocare bene. degli investimenti sul territorio non me ne può importare di meno. territorio parola ultra abusata che sta per città quartiere paese. scrivete come mangiate.

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    1. Luca

      Ce ne dovrebbe fottere?
      Grazie per i sinonimi.
      Mi ci hai fatto riflettere.
      Come andare a fare in culo, andare a quel paese, andare a ramengo, andare a cacare…
      Uguale uguale.
      L.

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  21. Tommaso

    A proposito del legame con il territorio, volevo postare questa canzone che mi sembra possa far riflettere un pochino sul rapporto tra tifo calcistico e “territorio”.

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      1. Tommaso

        Esatto. Oltre alla simpatia e lo scherzo, per me c’è un punto semi-serio. E cioè che questa concezione ‘territoriale’ del tifo è, scusate la parola eccessiva, tribale. Il calcio è bello perché da sport di public school è diventato uno sport mondiale. Questa dimensione era presente sin dagli inizi del secolo, ed ora è accelerata. E ciò è un bene per me.

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