Berenjena

[Riceviamo e pubblichiamo. Il racconto di Carlo Maria Miele che segue è liberamente ispirato a un evento realmente accaduto, l’infortunio al piede che impedì a Santiago Cañizares di partecipare alla Coppa del Mondo del 2002. Un racconto che parla del destino e dell’emozione di beffarlo, all’ultimo minuto]

Un racconto di Carlo Maria Miele sul calcio

di Carlo Maria Miele

Quello stupido soprannome, “berenjena” (melanzana), se lo portava dietro da una vita. Un nomignolo del cazzo se per mestiere fai l’attaccante. Un epiteto che al solo sentirlo ti succhia ogni goccia di fiducia e la trasmette al tuo marcatore. Un appellativo che sa di sfottò, anche quando non con quell’intento è pronunciato. Che nel momento stesso in cui lo senti articolare, ti regala la percezione dell’umiliazione imminente.

Dopo quindici anni che se lo sente gridare dietro Raùl Manzares dovrebbe essersi abituato. E invece niente. Anche adesso che di anni ne ha trentacinque, e che la carriera di calciatore è oramai tutta alle spalle, sentirsi chiamare così gli fa male. L’orgoglio gli sanguina e i coglioni gli girano, vorticosamente.

Come un paio di ore prima, quando quel ragazzino delle giovanili, incrociandolo sul campo di allenamento, aveva pensato bene di fare il simpatico: “Berenjena, que tal?”. Magari non voleva nemmeno offenderlo, cercava solo un modo per stabilire un contatto diretto con uno più grande di lui. E quel contatto diretto Raul glielo aveva subito offerto: “Callate, chupapollas”, gli aveva risposto, senza nemmeno pensarci.

Poi se ne era anche pentito. Possibile che alla sua età si facesse ancora turbare dalle parole di un sedicenne? E invece a quell’episodio senza senso aveva continuato a pensare, per l’intera serata. Sotto la doccia, mente l’acqua calda gli faceva di scivolare di dosso il fango del campo di gioco e la stanchezza. Poi mentre si rivestiva, per una delle ultime volte in quel vecchio spogliatoio di provincia, tra muri scrostati e panche di legno fradicio. E infine mentre tornava a casa, durante la solita passeggiata di un paio di chilometri che separava il vecchio stadio San Pedrés dal suo monolocale in centro.

Si era imposto di camminare con un passo più lento del solito, proprio per darsi il tempo di riflettere meglio. La pioggerellina dell’Atlantico non lo disturbava, una costante noiosa come tante altre della sua melanconica vecchiaia calcistica in quello sperduto lembo di Galizia. Aveva passeggiato a lungo; un occhio a evitare le merde dei cani che costellavano il marciapiede e l’altro rivolto all’indietro, a un passato così difficile da metabolizzare.

Già, il passato. Si fa presto a dire che bisogna voltare pagina, che – quando a ciò che è avvenuto non vi è rimedio – allora è meglio tracciare una linea e guardare avanti. Raul non era mai riuscito a convincersene. La certezza dell’inevitabilità del flusso degli eventi, per come si era dipanata fino a quel momento, non bastava a dargli pace. Ogni volta così: era sufficiente che qualcosa andasse storto, un episodio qualunque, un semplice rigore sbagliato, una parola fuori posto udita dagli spalti o anche un biglietto di sollecito di un creditore trovato infilato sotto alla porta di casa, e tutto tornava a galla, come fosse ieri. E invece erano passati più di 15 anni.

Bere 2

Allora per tutti era “el buitre”, l’avvoltoio. Altro che melanzana. Quando scendeva in campo si divertiva a cogliere il terrore negli occhi del portiere avversario. Lo guardava, gli rideva in faccia e poi, puntualmente, gli faceva gol. Era considerato un predestinato. Questione di un anno o due e sarebbe approdato in un grosso club, forse anche nel Real. Per il momento stava per arrivare la convocazione in nazionale e la partecipazione ai Mondiali. Roba che a un altro avrebbe fatto tramare le gambe. Ma le sfide a Raùl non avevano mai fatto paura. Aspettava solo che la convocazione arrivasse. Solo una formalità, gli dicevano tutti. I giornali sportivi ne scrivevano un giorno si e l’altro pure, e i compagni di squadra ne scherzavano con lui al termine degli allenamenti.

Poi quello stupido incidente. Così stupido che a raccontarlo manco ci si crede. Era a casa, appena uscito dalla doccia e si stava guardando davanti allo specchio cospargendosi di colonia. Lo squillo del telefono, improvviso, lo aveva fatto sobbalzare. Che fosse la convocazione? Stava per precipitarsi fuori dal bagno ma uscendo aveva urtato la boccia di colonia lasciata sulla mensola. Una bottiglia di vetro da un litro, confezione magnum regalatole da una sua amante un mese prima. Il macigno, 2mila pesos di valore commerciale, era caduto dal supporto, finendo esattamente sulla punta del piede e fratturandogli le ossa dell’alluce.

Uno dei portantini che erano arrivati a soccorrerlo, guardando il suo piede martoriato, lo aveva marchiato per sempre: “Que berenjena!”, aveva esclamato, suscitando la risata sguaiata dei altri presenti, incuranti del lancinante dolore, non tanto fisico, che in quel momento tormentava Raul. Chissà chi, tra coloro che in quel momento erano a casa di Raul, aveva raccontato quell’aneddoto all’esterno. Chissà come quell’esclamazione si era trasformata in soprannome: Bernjena, con la B maiuscola.

Lui, Raul, aveva perso i mondiali e si era giocato la carriera ad alti livelli. E in più gli era rimasto quel soprannome di sfiga, impossibile da scrollar si di dosso. Più tardi si era ripreso dall’infortunio, senza però mai tornare ai livelli di prima. Più che la condizione atletica non era mai riuscito a recuperare la sicurezza di sé. Per quanti sforzi facesse di ricacciare quell’idea balorda, a vent’anni si sentiva già perduto. Più si diceva che una nuova occasione sarebbe arrivata e più si toglieva le energie fisiche e mentali per ricrearla. Anche i suoi avversari adesso in campo ne percepivano l’insicurezza, gliela leggevano in faccia: non faceva più paura, era un giocatore come tanti.

Alla fine aveva fatto anche una carriera decente, migliore di quella di tanti altri, ma niente di paragonabile con quello che tutti, e anche lui stesso, si attendevano un tempo. E in più si era portato il peso del fallimento, della promessa mancata, che lo schiacciava ogni giorno di più.

Certo, ora stava per smettere di giocare. La voglia lo aveva abbandonato da parecchio tempo, ma adesso non c’erano nemmeno più le gambe a sorreggerlo. Insomma, sarebbe stato il momento opportuno per accettare una volta per tutte quello che era stato. Magari a mettere da parte il calcio una volta per tutte e iniziare a pensare a cosa fare da grande.

È in quel momento che lo vede, a nemmeno dieci metri dal portone di casa. Un vecchio come tanti, con al guinzaglio un cane più vecchio di lui. Un altro che porta a cacare il suo animale sulla pubblica via – pensa Raùl – un altro che se ne fotte di chi quella via la vorrebbe pulita per passeggiare.

Il vecchio però interrompe la sua camminata solitaria e gli si avvicina. Quando è a solo un metro di distanza da Raùl si ferma. Allunga la testa per avvicinarla alla sua e Raùl nota la dilatazione del collo, proteso nello sforzo di allungamento, simile a quello di una tartaruga che tira fuori il capo dal guscio. E poi quegli occhi acquosi, che si sgranano per scrutarlo. “Ti conosco – gli fa – Tu sei el buitre”.

Sentirsi chiamare a quel modo, per la prima volta dopo 15anni, lo fa trasalire. Raùl si ferma a sua volta a guardarlo. Cerca di capire se, per caso, non lo stia prendendo per il culo. Sfotterlo così, con quel vecchio nome di battaglia, gli farebbe ancora più male. Guarda il vecchio-tartaruga negli occhi, per capirne le intenzioni, ma l’altro sostiene il suo sguardo, dando a Raul il tempo di riconoscere ogni piega del viso. Così Raùl ne scruta le rughe, la pelle abbronzata e coperta da poca barba bianca, la bocca socchiusa che lascia intravedere i denti malandati e gialli di fumo. E poi quegli occhi un po’ umidi, in cui non c’è traccia di ironia. Solo emozione, vera, come quella di un bambino.

Allora capisce che, per una volta, non c’è da difendersi, che si tratta solo di scegliere le parole. Poche, quelle giuste. “Si, vecchio, sono proprio io. El Buitre”, gli dice. E vede la bocca rugosa dell’uomo-tartaruga muoversi lentamente, con fatica. Parrebbe proprio un sorriso.

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Carlo Maria Miele lo trovi su Twitter e scrive sul blog Mondo Calcio.

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