[Riceviamo e pubblichiamo. Andrea Luchetta è stato in Egitto e ha curato per la Gazzetta dello Sport lo speciale su Port Said uscito in ExtraTime lo scorso 2 aprile. Ci ha inviato questo bel reportage sulla sua trasferta ad Alessandria con gli Ahlawi, ultras del Al Ahly]
di Andrea Luchetta
Port Said, 1 febbraio 2012. Alla fine di Al Masry-Al Ahly centinaia di spettatori assaltano la curva degli ospiti. In pochi minuti si contano 72 vittime, mentre la polizia resta a guardare. È il prezzo che gli Ahlawy, gli ultras del Al Ahly, pagano per il loro impegno politico. È la vendetta del vecchio regime contro la fanteria della rivoluzione. Da allora – promettono gli ultras – non metteranno più piede in uno stadio finché non avranno ottenuto giustizia. Il 9 marzo 2013 il tribunale di Port Said conferma la condanna a morte di 21 tifosi del Al Masry e condanna a 15 anni due funzionari di polizia. Un mese dopo, la sera del 7 aprile, gli Ahlawy tornano in curva. Si gioca a Borg El Arab, 10 km da Alessandria, per i sedicesimi di Champions League contro il kenyoti del Tusker (2-1 per l’Al Ahly a Nairobi).
«Non vedo l’ora di stare in curva, amico. Arriviamo a pranzo e ci diamo dentro con le coreografie. Ci si becca lì» saluta Gamal. Ventisei anni e più battaglie di un veterano napoleonico, Gamal è un ultras della vecchia guardia. A Port Said è sfuggito a due sicari che lo inseguivano con una spada («Una spada… Cioè, che cazzo! Prima ne avevo viste solo al cinema»). Il mattino della partita il Cairo è un girone infernale. 35 gradi, metropolitana in sciopero e traffico impazzito. Siamo i soli a soffrirne, nel pulmino che lentamente arranca verso il deserto. Di fianco a noi due ragazzini siedono uno sopra l’altro, ridendo e sventolando una bandiera del Al Ahly. Un terzo – serissimo – rompe il silenzio solo per chiedere un po’ d’acqua. Avranno sui 10 anni, e se ne vanno in trasferta da soli, in curva, nella prima partita aperta ai tifosi dall’eccidio di Port Said. Nessuno sembra trovare la cosa strana.
Quando arriviamo a pochi chilometri da Alessandria, il pulmino accosta per far scendere i tifosi. I tre 10 aspiranti ultras corrono verso lo stadio, fiondandosi in mezzo all’autostrada. Nuotano come pesci nel mare e in pochi secondi spariscono dall’altro lato della carreggiata.
Incontriamo Gamal in un ristorante di fronte allo stadio. Non sta nella pelle, eccitatissimo. «Vedrete la coreografia. C’è tutto». Nella stanza a fianco un ragazzo giochicchia con una mazza di metallo pieghevole. Si accorge che lo fissiamo. Ci affrettiamo a sorridergli, e lui ricambia un po’ perplesso. Le misure di sicurezza sono impressionanti. Tre check-point nell’ultimo chilometro di strada. Ad ogni gate almeno un centinaio di poliziotti pronti alla guerra. Documenti, perquisizione, metal detector. Drappelli ovunque. Impossibile quantificarne la presenza, ma a occhio gli agenti schierati nell’impianto sfiorano i diecimila. Inspiegabile allora quello che troviamo a pochi metri dalla curva del Al Ahly: un piccolo cantiere incustodito, con quintali di sampietrini e sbarre di ferro lunghe un metro. Ma poco cambia, vista la quantità di razzi, mazze e fumogeni che girano sugli spalti. La curva è piena – saranno almeno in 5 mila – mentre le tribune dello stadio gigantesco (86 mila posti, il secondo più grande d’Africa, ovviamente proprietà dell’esercito) sembrano deserte.
Guadagniamo l’accesso alla pista d’atletica pochi istanti dopo l’inizio della partita. Giusto di fronte a noi, negli ultimi minuti di luce prima del tramonto, si srotola la coreografia degli Ahlawy. Due ritratti giganteschi. Sul primo campeggia una caricatura del maresciallo Tantawi – ex leader del Consiglio supremo delle forze armate (SCAF), alla guida del Paese la notte di Port Said e per gli ultras vero regista del massacro. Sul secondo, invece, tre cani rabbiosi. Uno indossa l’uniforme dell’esercito, un altro quella della polizia. Il terzo cane, stretto fra i due, è vestito in verde, come i tifosi del Al Masry.
Due file infinite di poliziotti fronteggiano la curva. In mezzo a loro, padrone indisturbato della pista d’atletica, si muove il capo degli Ahlawy. Poco più di vent’anni, secco come un’acciuga, un cappellino rosso calato sui ricci. Non si limita a dirigere i canti. Li assorbe, ne viene posseduto prima di restituire il ritmo. La tifoseria segue ipnotizzata, ogni movimento delle braccia una sillaba. Una simbiosi che nemmeno la Filarmonica di Vienna con Riccardo Muti. A pochi centimetri, mentre il capo guida una serie di canti certo non lusinghieri per la polizia, gli agenti non osano nemmeno sfiorarlo.
La partita è contorno e nulla più. Non ci accorgiamo del primo gol del Al Ahly, segnato nella porta alle nostre spalle. E non ci accorgeremmo nemmeno del secondo, se non scatenasse un’esultanza furiosa. I pochi fumogeni che avevamo visto nella prima mezz’ora si fanno nebbia impenetrabile. La curva sembra un mare in fiamme, mentre cresce rabbiosa la marea dei cori. Irresistibile, magnetica, violenta. Su tutti «Hekayetna» («La nostra storia»):
A Port Said le vittime hanno conosciuto il tradimento prima di morire.
Hanno visto un regime che presenta il caos come sua unica alternativa.
I sergenti percorrono freneticamente le linee schierate sulla pista d’atletica. Gli uomini, nervosi, aggiustano i caschi.
Liberate altri cani, diffondete il caos ovunque.
Non vi crederò mai,
non vi permetterò di controllarmi un solo giorno in più.
La curva esplode. Decine di tifosi, arrampicati sulla ringhiera, seguono il ritmo scandito dal capo con bracciate furibonde.
Oh, militari bastardi. Quanto costa il sangue di un martire?
Avete venduto il nostro sangue per due soldi,
per proteggere il regime di cui siete parte
Solo una barriera di metallo, che mai è sembrata così fragile, separa ultras e poliziotti. Faccia a faccia, a guardarsi negli occhi, 14 mesi dopo il massacro. Arrivano altre due file di agenti (mille? duemila?), rassegnati a fronteggiare quello che appare ormai inevitabile. «Pessime voci» ci dice uno di loro. «Ho sentito che la gente di Alessandria attaccherà gli ultras». Poco dopo raggiungiamo un ufficiale. «Sta andando male, malissimo. Questa partita è da sospendere subito». La curva, ormai in trance, martella senza requie. Voi che ordini avete? «Stiamo fermi. Ma se attaccano certo non restiamo a guardare». Solo un fotografo, uno che ha l’aria di averne viste di ben peggiori, è serafico. «E’ tutta scena. Stasera non succederà nulla» dice, continuando a scattare mentre intorno cadono fumogeni. «Se mi sbaglio, però, correte come pazzi verso gli spogliatoi».
Durante l’intervallo in curva scoppiano alcune risse. Pensiamo a un litigio fra la vecchia guardia e i ragazzini più esagitati. Nel dopo-partita Gamal ci fornirà un’altra spiegazione. «Erano beduini. A Borg El Arab ne vivono un sacco, volevano ribadire che lo stadio è proprietà loro. Una robetta, pochi minuti».
E poi, quasi fosse telecomandata, proprio quando sembrava destinata a farsi tsunami, l’onda di rabbia si placa. Di colpo dalla curva non piove più nulla e nelle voci degli ultras sparisce l’aggressività disperata dei minuti precedenti. Regna una calma forzosa, quasi irreale. Una tregua armata. Il capo non si vede più sulla pista d’atletica. Forse è confuso fra le migliaia di poliziotti. O forse – più probabilmente – è tornato in mezzo ai suoi, per scongiurare un’escalation che rischierebbe di tradursi in tragedia. Già il 9 marzo – di fronte alla delusione della base che sperava in condanne più severe – abbiamo visto i leader placare con enorme fatica i tifosi assiepati fuori dalla sede del club, al Cairo. Probabile che si stia ripetendo lo stesso copione.
A metà del secondo tempo gli Ahlawy srotolano decine di striscioni. Sono un omaggio alle tifoserie che hanno manifestato solidarietà. Bayern Monaco, Napoli, Olympiakos… Vengono ricordati pure i “White Knights”, il gruppo ultras dello Zamalek, nemici per antonomasia nel derby del Cairo. La partita è senza storia. L’Al Ahly – nettamente superiore – si accontenta di gestire il pallone, contribuendo così a stemperare le tensioni. I timori dei giocatori sono ben espressi dalla velocità con cui lasciano il campo a fine partita. Soltanto un paio abbozzano un applauso alla curva, senza nemmeno entrare sulla pista d’atletica. Le gradinate si svuotano in pochi minuti.
Ritroviamo Gamal in un fast food. E’ felice. «Non potete immaginare quanto ci sia mancato tutto questo» dice, mentre scherza euforico coi compagni. Uno di loro, studente in Europa, ha posticipato l’aereo solo per non perdere il gran ritorno.
La medaglia d’oro va a Omar, un architetto che ci accompagna in macchina al ritorno. S’è sorbito il viaggio dal Cairo ad Alessandria per vedere un quarto d’ora di partita. Finito di lavorare, è corso a casa. Ha salutato suo padre («Ciao pa’, esco un attimo»), è saltato in macchina e ha incendiato la strada fino a Borg El Arab. Ora si scusa: «Sono un po’ stanco, vi spiace se vado piano?». Vicino a lui Gamal armeggia con l’autoradio. «Piaciuta la partita?» chiediamo. «E chi l’ha vista» risponde mentre rolla una canna. «Io cantavo». «Ma a voi in Italia cosa succede? Eravate il faro della cultura ultras, diciamo capo e curva perché lo abbiamo imparato da voi. Ora boh… Meno male che ci sono i napoletani». Poi tira fuori la sua mazza pieghevole (di gran lunga l‘articolo più popolare presso gli Ahlawy). «Tranquilli, no problem… Però se incontriamo qualche sbirro…» ride, mentre le sagome dei camion si confondono nell’oscurità del deserto.
In meno di due ore entriamo a Zamalek, tana dei rivali storici dell’Al Ahly. Gamal, i lineamenti distesi dopo l’ennesima boccata di fumo, abbassa il finestrino e intona una sfilza d’insulti a dito medio spiegato. Omar sorride. Nei cori di Gamal c’è una voglia disperata di normalità. Il bisogno di respirare, di liberarsi di un peso che stenderebbe un elefante. Il ritorno al calcio degli Ahlawy è un passo da gigante verso l’illusione di una routine perduta. Ma questa nostalgia cosa significa per il fronte rivoluzionario? Difficile non pensare a quello che ci ha detto Gamal pochi minuti prima: «Ascolta: sono stato a Tahrir dal primo giorno; mi sono risvegliato in ospedale dopo la battaglia di Mohammed Mahmoud; ho perso 72 fratelli a Port Said. Ora ne ho abbastanza. Stop. Faccio la rivoluzione dal divano e combatto solo per il mio gruppo, per qualcosa in cui credo veramente. Questo paese non è pronto per la democrazia. Triste, ma è così».
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Francesco La Pia, che ha accompagnato Andrea in Egitto, è autore delle immagini pubblicate.
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Sul rapporto tra Ultras e Rivoluzione in Egitto puoi leggere anche:
Lo “stadio” della rivolta sulle rive del canale (da Il Manifesto 2.2.2013)
di Christiano xho Presutti e Luca Wu Ming 3