Amianto, polvere, pallone

[Riceviamo e pubblichiamo. Una recensione in forma di racconto che nasce dalle pagine di “Amianto”, in cui Alberto Prunetti scrive (anche) di pallone e delle partite del Follonica]

di Giulio Pedani

Promemoria Rosignano

Tornai a giocare al calcio nel campo d’ asfalto, dove ormai avevo una reputazione e nessuno mi molestava. Andavo con mio padre a vedere il campionato livornese di prima categoria e facevo il raccattapalle quando giocava il Follonica in casa. Mi piaceva ascoltare quello che succedeva in panchina. L’ allenatore del Follonica si addormentava spesso. Poi si risvegliava di colpo, lanciava un bestemmione trionfale e diceva qualcosa, solo per farsi sentire dal pubblico che seguiva la partita. Ce l’ aveva sempre con un calciatore pelato. Era il mitico Dea, una delle mie leggende giovanili insieme all’ argentino Ganem, storico dieci “maradoniano” del Follonica. Il Dea era un altro che si faceva il culo in fabbrica e che giocava di forza, eppure il mister gli diceva sempre: “Sei un duro !” Una volta dopo essersi addormentato in panchina si svegliò di colpo e per dimostrare di aver seguito la partita esplose in bestemmie: “Diolopicardo, pelato, sei un duro !“. Il pelato era in panchina accanto a lui. Rispose: “Mister, ma oggi non gioco”. “Fa’ una sega, sei un duro uguale”, replicò l’ allenatore, prima di riaddormentarsi pacifico.
[Amianto, pag. 62]

Tutto questo succedeva intorno alla metà degli anni ’80. Quel raccattapalle era Alberto Prunetti. La nascita del suo “Amianto”, il bellissimo libro da cui sono tratte queste righe, era ancora lontana.

Dentro “Amianto” ci sono una storia, e migliaia di storie. C’è la storia più personale possibile, quello del proprio padre, che riesce con gran dose di magia a farsi, da intima e privata, universale. C’è il boom siderurgico e petrolchimico, la fabbrica creatrice di intere città, i viaggi in treno la domenica notte per arrivare all’ alba del lunedi in cantiere, la descrizione minuziosa dell’ artigianato metalmeccanico. C’è l’ osceno baratto di stato, tutt’ altro che svanito (dicono niente Taranto e Casale Monferrato, ILVA e Eternit ?), tra il lavoro e la salute. C’è una Toscana stupenda e nascosta, lontana anni luce dalle fotografie patinate del Chianti e dalle rendite passive del turismo di massa. Ci sono lotta e cazzeggio, sudore e vitalità, tradizione anarchica e comicità dialettale.

Ci sono alcuni spaccati sensazionali di calcio di provincia.

Follonica 85-86

Per tornare dall’universale al particolare, io non so, dieci anni dopo, precisamente nel 1994, su quale panchina si addormentasse l’ allenatore di quel Follonica di metà anni ottanta.

Accaddero talmente tante cose, quell’anno. L’anno dell’elezione di Nelson Mandela a presidente del Sudafrica. Della morte di Cobain e Senna. Del genocidio in Ruanda. L’anno, per venire ad eventi più circostanziati ma non meno infausti, della Discesa In Campo.

Che avete capito. Non mi sto certo riferendo alla politica italiana. Sto parlando della nostra discesa in campo. La domenica mattina a settimane alterne, ore 10, campo sportivo “Marido Guerri”.

Giovanissimi provinciali del Sovicille. Una banda di gracili tredicenni che sfidava gli squadroni del maremmano e dell’Amiata. Al pomeriggio, campanilisti per eccellenza, l’imperativo era sostenere le sfavillanti maglie arancio-blu dei “grandi”, trasferendoci dal campo alle tribune.

Vabbè, tribune… Due-gradoni-due incastonati in una pendenza scoscesa, tra un Arci ed un ufficio postale. Non importava: giocava la prima squadra: Seconda Categoria con ambizioni di una stagione in prima fila.

Idoli incontrastati, due vecchi leoni ben sopra i 30, il botto del mercato estivo, venuti da noi per un onesto fine-carriera tra esperienza da tramandare ai ragazzini e ultimi lampi di classe. Un centravanti e un libero. Il centravanti aveva segnato montagne di gol in tutta la Toscana. Pelato e con la barba, poteva essere un pirata di antica discendenza longobarda o un carpentiere uscito dal Moby Dick di John Huston, capace di rovesciate alla Van Basten e di tremende capocciate spaccapietre. Del libero argentino, si diceva che fosse stato da giovane un grande trequartista, e che da piccolo, nei pulcini del Lanus, insieme a lui avesse giocato Dio in persona.

Li seguivamo in mezzo alle Brigate Arancio Blu, una decina di esagitati che per tutta la durata della partita si sganasciavano di risate prendendo per il culo, in vernacolo strettissimo, tutti gli avversari. Il fatto che ciò avvenisse a 1,5 metri di distanza dal campo, nella bonaccia sonnacchiosa della domenica pomeriggio, con alle spalle un viale alberato popolato da anziani in passeggiata e davanti una recinzione semidistrutta a separarci dal prato di gioco, rendeva il tutto vagamente imbarazzante, e per questo ancora più comico.

Eravamo certi di salire in Prima Categoria, quell’anno, ma le attese non furono mantenute. Come spesso accade in mancanza di traguardi più nobili, tutte le speranze si riversarono su una partita sola. Praticamente una finale. Il derby della Val Di Merse.

Sovicille – La Sorba Casciano.

Una rivalità violenta. Le risse, frequentissime, si scatenavano tra omoni che l’estate successiva si sarebbero riconosciuti, alticci, tra i fumi di braciole e gli improbabili valzer delle rispettive sagre paesane. Il più delle volte avrebbero brindato agli epici scontri del passato, per poi rinverdirli pestandosi di nuovo di santa ragione, sicuramente spinti dalla celebre acidità del pessimo vino che da sempre circolava.

Venne il giorno più atteso. Pubblico delle grandi occasioni. Non meno di cinquanta paganti. Subito a lato delle Brigate, grande spiegamento di masticatori di arachidi e semi di zucca, attaccati direttamente tramite flebo endovenosa a Tutto Il Calcio Minuto Per Minuto. Bandiere arancio blu al vento. Fischietti solitamente utilizzati per richiami alle anatre. Fumogeni. Botti stile curva A del San Paolo. Vecchiette con barboncini al guinzaglio che si affannavano lontano da quella Santabarbara, maledicendo la genesi di ogni tifoseria organizzata e, più alla radice, del nostro sport nazionale. Transenne. Tifosi ospiti nascosti in un praticello dalle parti della porta più lontana, camuffati dietro enormi colbacchi da cacciatori siberiani, vicini da un lato alle auto e dall’altro ai campi di grano: hai visto mai, non ci fosse stato il tempo di filare in macchina…

Qualcuno delle Brigate cercò di intonare addirittura dei cori. Calò un disagio abissale: come vi sentireste ad urlare canti da stadio in 6, incastrati tra un marciapiede e un bocciodromo, magari inveendo contro gli stessi carabinieri con cui avete appena commentato l’ennesimo rigore regalato alla Juve?

In campo successe di tutto, ma non fu la partita che sognavamo. Il Sovicille prese quattro reti da una squadra chiaramente più forte, che si preparava, lei sì, al salto di categoria. Ci ritirammo in silenzio verso il consolante rito del pizzino margherita in pura fibra di caucciù sfornato dai volontari dell’Arci a cinquecento lire al trancio. Mentre la quiete si impossessava di nuovo della conca del campo sportivo, e restavano in cielo solo gli echi dei piccoli aerei in gita panoramica, anche gli ultimi scalmanati si decisero a sfollare.

A noi restò solo l’istantanea più bella. Appesi malamente con scotch di carta sopra la pubblicità di un’autofficina, penzolavano due cartoncini bristol sfondo arancio, che per gli autori, quasi certamente bambini, dovevano essere uno striscione. C’era scritto , a pennarello blu, qualcosa di inequivocabile: «DEA SINDACO, WALTER PRESIDENTE».

Roberto DeAngeli e Walter Ganem, il pelato “duro” e il “dieci maradoniano”, sono esistiti davvero.

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Copertina di Amianto
Amianto
(2012, Agenzia X),
scheda sul sito della casa editrice Agenzia X.

La recensione a caldo uscita su Giap, il blog di Wu Ming Foundation.

L’introduzione a cura di Valerio Evangelisti.

 

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Giulio Pedani vive e lavora a Firenze, ha studiato inutilmente cinema, ha scritto e scrive di musica e letteratura, adora perdere tempo. È stato una delle ultime ali destre prima dell’estinzione della specie. Ama ripetere, come alcuni milioni di connazionali, che se a diciannove anni non si fosse rotto il crociato sarebbe stata un’altra storia.

Le foto che corredano il testo ce le ha fornite Alberto Prunetti, che ringraziamo.

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