[Riceviamo e pubblichiamo. Delle contraddizioni del fútbol, di quando, omologante, può essere subito e sofferto]
di Scalva
Da piccolo ero un ragazzino estremamente timido. Sarà stato a causa delle mie orecchie troppo grandi o del mio fisico troppo magro. O forse sarà dovuto al fatto che venivo da una famiglia piuttosto povera e non avevo mai i giocattoli che avevano gli altri.
Certo, mica vivevamo in una baracca nelle favelas… Appartamento dell’edilizia residenziale popolare a equo canone, e non è che si pativa la fame nella mia famiglia. Un classico nord-est degli anni ’80, nel più brutto quartiere di Trieste, “il Quadrilatero”, quando c’era ancora la lira…
A fine mese però si arrivava giusti giusti e non c’era spazio per il non necessario. Vestivo gli abiti dismessi dai cugini più grandi, giocavo con i vecchi Lego da solo o con mia sorella e non avevo la forza di oppormi o difendermi dalle prese per il culo degli altri bimbi. E, si sa, l’ingenua e ignorante cattiveria dei bambini può essere qualcosa di veramente atroce, senza freni né diplomazia. Ci soffrivo parecchio.
Per farvi capire quanto fossi timido: i miei parenti dicevano che avevo una bellissima voce e che cantavo molto bene. Per cui, quando si facevano le “riunioni di famiglia”, a un certo punto, qualcuno mi chiedeva sempre di cantare qualcosa… Per me era estremamente difficile farlo, ma ovviamente provavo pure un certo umano piacere nell’essere al centro dell’attenzione. Mi nascondevo quindi sotto a un tavolo e aspettavo che ci fosse un po’ di silenzio. Poi cominciavo con la mia performance. Alla fine – ovviamente – partivano gli applausi e io diventavo così rosso in viso che aspettavo in silenzio almeno dieci minuti per uscire. Poi correvo in camera mia e tornavo dopo un po’, sbollita l’emozione.
Ovviamente poi sono cresciuto, ho superato la mia timidezza creando la mia corazza e queste storie sono solo bizzarri ricordi che hanno formato il mio carattere. E forse è stato meglio così… In fondo non è stata comunque un’infanzia infelice, anzi.
Cosa c’entra il futbol in tutto questo?
C’entra, perché per me giocare a calcio con gli altri bambini nel campetto sotto casa è stato negli anni della mia infanzia più fonte di sofferenza che di piacere. Quasi tutti gli altri ragazzini già giocavano nelle squadrette della città. In Italia, si sa, è così.
Io no. Mio padre voleva iscrivermi al club di quartiere e una volta mi portò agli allenamenti. Quando vidi l’allenatore che urlava ai giocatori «Forza! Forza! Alzate quelle gambe, correre, correre!» mi prese il panico e dissi al babbo: «Non mi piace il calcio, non voglio giocare mai più».
Ovviamente non era così, mi piaceva giocare, ma la pressione dell’allenatore mi pigliava malissimo!
Mio padre la settimana dopo tentò un’altra strada e mi regalò delle scarpette – che ricordo bellissime – con i tacchetti. Però quando le portavo nel campetto sotto casa e le tiravo fuori, gli altri bimbi mi pigliavano per il culo: «e cossa, gnanca te zoghi in una squadra e te ga le scarpe coi zocheti!», così le rimettevo via e me ne stavo in disparte aspettando di essere scelto per giocare.
Alla fine quelle belle scarpette da calcio finirono dimenticate in una scarpiera – o furono forse regalate ad un cugino più piccolo che spero ne abbia fatto miglior uso.
Il momento più brutto era quando venivano formate le squadre per la partitella nel cortile. Funzionava così. Venivano nominati due caposquadra, di solito i personaggi più bulli del quartier. I due caposquadra o “capitani” – che dir si voglia – tiravano a sorte per chi doveva cominciare a scegliere i giocatori e si mettevano di fronte agli altri bimbi. Poi, a turno, sceglievano il loro team, uno a uno.
V’immaginate cosa significa per un bambino piccolo essere sempre scelto per ultimo? Delle volte il numero necessario di giocatori era già raggiunto prima di arrivare a me. Io mi pigliavo, e con qualche altro “sfigato” andavamo a fare altri giochi, da qualche altra parte, oppure rimanevamo seduti a bordo campo a guardare la partita da cui eravamo stati esclusi.
E anche quando mi ammettevano nella squadra, il mio ruolo era sempre quello più arretrato: quelli fichi erano attaccanti, quelli meno fichi erano i difensori.
Una volta mi dissero: «Bon, ti te son el Libero». Io, che non capivo nulla di calcio, pensai: «che bello, libero, corro ovunque, dove mi va». E invece poi mi cazziarono spiegandomi malamente che il mio era un ruolo in difesa. E non avevo ancora capito come funzionasse il “fuorigioco”…
Insomma, per farla breve, il calcio non mi ha dato granché. Un cameratismo di cui in seguito mi resi conto di non aver bisogno, un egocentrismo infantile nel quale non ero in grado di competere e un senso di esclusione costante che, vi assicuro, non è piacevole per un bambino.
Quando crebbi, lasciai perdere il pallone del tutto. Pure guardare le partite in TV non mi ha mai dato molto. E quando poi in seguito divenni più “politicamente conscio” iniziai a disprezzare le grandissime cifre pagate ai giocatori, la mitizzazione e l’idolatria nei confronti dei cosiddetti “campioni”, la mafia nei campionati, eccetera.
L’unico sport nel quale sono stato un piccolo talento adolescenziale, è stato lo skateboard. Nei primi anni novanta a Trieste ero considerato tra i migliori. Un negozio mi sponsorizzava pure e ai pochi contest ai quali ho partecipato ho ottenuto buone posizioni.
Però ero solo io, la mia tavola e le mie ruote, niente allenatori o squadre, nessuno che mi dicesse cosa dovessi fare e come. E nessuna divisa. Solo un po’ di punk hardcore nelle orecchie e un pugno di amici, pochi ma fidati: bellissimi e stupendamente sfigati, proprio come me.
[Scalva lo trovi su Twitter]
Geniale
Io da ragazzino ero una palla che si confondeva con il pallone con gli occhiali ovviai a tutto questo facendo il portiere, nessuno voleva fare il portiere ma quanto mi divertivo a buttarmi sulla terra o l’asfalto lo sapevo solo io e prendevo piu insulti per le parate che per la mia forma fisica adesso gioco a pallone da 30 anni e ne sono sempre più innamorato nonostante mi sono sgrugnato con lo skate parecchie volte
uno spaccato di quegli anni, io ero pure scarso, ma siccome giocavo a basket mi mettevano in porta!!
Grandi Negazione….
In porta, fisso in difesa, scelto per ultimo quello che vuoi, ma il pallone è pallone! Le tute con le toppe, le magliette della propria squadra finte o originali ma di varie misure in più e sempre con il pallone e sempre nelle strade; questo è per me gli anni 80 in città e specialmente nei quartieri working class.
Un saluto
Forse bisognerà dedicare un post agli allenatori (??) delle squadrette giovanili e a quanto male fanno ai giovani calciatori …
Certo il numero di praticanti è enorme e probabilmente si ritiene che ogni bambino impara a giocare al campetto, ma la quasi totalità di questi allenatori non è altro che una via di mezzo tra un sergente dei marines e un selezionatore della nazionale. Sarà la mia esperienza di giovane timido, ma mentre i miei allenatori di pallavolo fin dalle giovanili hanno cercato di insegnarmi a giocare (sia la tecnica che la tattica) consigliandomi, spronandomi e cercando di capirmi e soprattutto non dandomi un ruolo per tutte le giovanili . quelli di calcio mi han solo messo una maglietta dicendomi fai goal o ferma quello o corri. Cmq nessuno di quelli si è mai interessato a farmi veramente migliorare …
Verissimo. E assieme ci sono spesso i genitori.
Su cui qualcosa c’è, per esempio lo scambio di Valerio (Perché) con Wu Ming 4 (Euroghepard).
C_
Nella durezza dimostrata dagli allenatori dei settori giovanili in Italia emerge una delle differenze culturali più importanti tra il modo di concepire il calcio giovanile in Italia e in Inghilterra.
In The Italian Job, il libro che Vialli ha dedicato all’argomento, si fa notare infatti come gli inglesi prediligano, nei primi anni di attività, il lato ludico del calcio e gli allenamenti siano composti perlopiù da partitelle in cui si insegna il gusto del gioco e il fair play. Solo in età più avanzata si introducono gli esercizi specifici che, invece, sono il fulcro del metodo di allenamento italiano fin dall’inizio. Questo metodo predilige l’approccio “professionistico” al calcio.
1. Vialli è problematico moralmente.
2. Si vedono i brillanti risultati dei three lions.
1. non sono un arbitro di morale
2. sticazzi
Ao, simpatia! 😉
@pipcoman: verissimo, ti cito: “ma la quasi totalità di questi allenatori non è altro che una via di mezzo tra un sergente dei marines e un selezionatore della nazionale”.. mi fosse venuto in mente, l’avrei sicuramente scritto nel pezzo qui sopra, anche se credo di aver reso l’idea con altre parole (o almeno lo spero) . E’ molto difficile per molti riuscire ad inserirsi in un contesto di gioco di squadra, quando poi non sei trattato come un individuo con un carattere unico ed indipendente, ma solo come parte di un meccanismo funzionale ad un risultato più o meno tangibile numericamente. Fondamentalmente – con una certa dose di cinismo – può essere un buon allenamento per quello che poi ti aspetterà nel varco della Vita Reale da Adulto… Però non sono sicuro sia una buona cosa per lo sviluppo umano di un piccolo cucciolo d’uomo pieno di insicurezze.
io sono cresciuta con mio nonno. mio nonno è stato partigiano, e quando mi spiegava cosa significasse per lui io non capivo. capivo solo che il nonno, quando parlava di questa cosa del partigiano, s’illuminava. tornava ragazzo, gesticolava. mi piaceva chiedergli di parlarmi della resistenza: qualsiasi cosa stesse facendo smetteva, mi tirava sulle ginocchia, e gesticolava. lui era tifoso della roma, mi portava allo stadio, mi diceva “siamo tutti belli”, e allargava il braccio in un gesto di accoglienza al fiume di gente con le sciarpe giallorosse. le domeniche in cui la roma giocava fuori sentivamo la radio, che prendeva bene solo sopra la lavatrice. lui si agitava, si alzava, girava.. poi un anno abbiamo vinto lo scudetto, avevo la coda con due elastici, uno giallo e uno rosso. qualche anno fa, in ospedale, mi chiedeva della partita: “e totti? totti?” “totti ha segnato nonno..”
non credo in niente, per me mio nonno è morto e punto. non c’è nessun tipo di posto in cui sia, se non nel mio ricordo e dentro il cuore o la gola, dove ora sento salire le lacrime. però totti segna ancora, e ogni volta il gesto del braccio lo faccio io.
Pioveva, quella domenica. Allo stadio, la mia prima volta, gli spalti erano tutti colorati. Di giallo chiaro e celestino, come tutti quei k-way trasparenti da duecento lire che l’Olimpico sfoggiava prima della copertura per Italia ’90.
Era aprile, il primo aprile, del 1984. E si giocava alle 15.30, tutti insieme, all’unisono.
A mio padre del pallone non è mai fregato nulla, però mi faceva i tiri in porta, sul terrazzo, al sesto piano. Quante macchine ammaccate, sotto, per tutte le volte che il Tango superava le ringhiere… In porta non mi è mai piaciuto stare, per fortuna qualche anno dopo iniziai a bombardare mio fratello, che già a 4-5 anni era più spericolato di me.
Quel giorno, quel primo aprile, del 1984, non avevo ancora compiuto sette anni. E allo stadio ci andai con Cencio, amico fraterno che vide la vita solo un giorno dopo di me, con suo padre e sua madre, che della mia era amica del cuore e che smise di vedere la vita anni più tardi, travolta ad un cazzo di maledetto incrocio.
Era Roma-Inter. Era la Roma di Tancredi, Maldera, Falcao, Cerezo, Conti, Pruzzo e Di Bartolomei.
Di Bartolomei, che quando si portò sul dischetto per calciare il rigore, mi convinse che l’avrebbe segnato solo perché la mamma di Cencio mi disse “corri, corri, tappati le orecchie che sennò con il boato diventi sordo!”. 1 a 0. Tancredi ne parò anche uno, di rigore. La Roma aveva vinto. Ma era il primo aprile, e solo crescendo compresi che in fondo, dietro quella vittoria, la mia prima volta allo stadio!, si nascondeva lo scherzo di un destino che solo due anni più tardi, sempre ad aprile, vestì i giocatori del Lecce di biancogiallorosso sì, ma con i nasi e le parrucche di orrorifici clown. Non avevo nemmeno nove anni, e per la prima volta capii che lo stadio non era solo festa e gioia, ma anche “schifo e dolore”. Come la vita, a cui è difficile dire di no dopo le vittorie, ma alla quale non puoi rinunciare nemmeno dopo le sconfitte.
La Roma, lo stadio, Zeman: dopo di lui, 13 anni fa, ci tornai solo un paio di volte. La Roma imparai a vederla anche così, su un divano, in trance passiva nel bene o nel male. Il pallone, quello no, ha continuato a far parte di me, con gli amici, con Cencio, che per quasi 30 anni ha continuato a giocare in tutte le categorie inferiori e che adesso continua a farlo, con me, una volta a settimana. E lo stadio, di nuovo lui, una domenica sì e una no ci rimette seduti vicini, grazie alla Roma, grazie a Zeman.
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