Chi odia il Barça ama il calcio?

[Riceviamo e pubblichiamo un post riepilogativo sulla “questione Barça” di cui si è discusso in rete durante l’ultima settimana]

di Matteo Gatto

E così, improvvisamente, iniziano a fioccare articoli sul Barcellona.

La colpa è di Michele Dalai che su IL ha smontato pezzo per pezzo una sua caricatura del Barça. Chi ama il calcio odia il Barcellona, ha scritto, mentre Stefano Fanti sul Post gli ha risposto difendendo i Blaugrana (in pressing alto, naturalmente); ma prima era già arrivato Daniele Manusia su Vice, il quale aveva sia disinnescato bene la critica di Dalai, sia portato a galla le ragioni che l’hanno provocata.

Credo che il tema di fondo di invettive di questo tipo, per quanto provocatorie e ripetitive, sia importante e universale. C’è più libertà nella solitudine o in un gruppo organizzato? C’è più felicità nell’imperfezione istintiva dell’individuo o nella complessità del progresso tecnologico?

E soprattutto: chi ama il calcio ama il Barcellona? Manusia però non si è schierato, il suo giudizio resta sospeso tra il modello di una società soffocante e tecnocratica, o l’utopia realizzata dell’armonia tra individui esaltati dalla struttura, e lui intento a guardare il Barcellona come l’apice di qualcosa che difficilmente si riprodurrà sotto i nostri occhi, con la speranza che non finisca mai, con la consapevolezza che è già quasi finito tutto.

Ma non si può partire dalla fine. E il punto è che tutto inizia quando l’unica utopia era vincere un campionato. Nel 1960 il Real Madrid, squadra preferita dell’allora sessantottenne Caudillo, aveva vinto sei titoli, cioè uno meno del Barcellona, già simbolo dell’opposizione al franchismo – sin dall’inizio della guerra civile il Barça fu entità al servizio del governo legittimo della Repubblica. Passano trent’anni, è il 1990, la Spagna è democratica e le Merengues hanno ormai in bacheca venticinque campionati. Il Barça appena nove. Fanno due vittorie in tre decadi. Un vero disastro.

È a metà di quella traversata del deserto che il Barça inizia il percorso che lo ha portato fin qui, e dunque anche lo squadrone metafisico di oggi è nient’altro che una risposta a un’antica e sempreverde domanda: come si vince una partita di calcio?

Negli anni ’70, disperati, i Blaugrana andarono a cercare la soluzione in Olanda. Rinus Michels e Johan Cruyff (e più tardi anche Neeskens) portarono là i loro appunti di calcio totale. Nonostante un successo modesto, Michels anni dopo loderà Barcellona per aver saputo recepire e assimilare gli input al cambiamento. Sandro Modeo ha raccontato magistralmente l’innesto di elementi olandesi in Catalogna, e l’apertura selettiva di quella terra.

E c’è una cosa che l’Olanda ha offerto e la Catalogna ha saputo e voluto assorbire: si chiama gidsland, significa paese guida, avanguardia ed esempio per gli altri (se ne parla anche su Brilliant Orange). Capisco che possa far sorridere, ma per quasi tutta la seconda metà del Novecento l’Olanda si è assegnata il ruolo di esempio per il resto del mondo, principalmente in due ambiti: quello etico-politico e quello calcistico. Autoproclamarsi modello da seguire non è il massimo dello stile, ma ciò non toglie che questa orgogliosa propensione a guidare il progresso li abbia condotti prima di tutti a traguardi che oggi riteniamo – o sarebbe bene che ritenessimo – fondamentali per un paese civile, o per una squadra competitiva.

Un po’ di quest’ambizione è stata sicuramente iniettata nell’animo barcellonese. Ed è anche la percezione di quest’ambizione a darci fastidio. Chi siete voi? Che volete da noi? Stavamo così bene col 4-2-3-1 speculativo e coi nostri sponsor di compagnie petrolifere, ora arrivano questi e non solo fanno una roba completamente diversa, ma vincono pure. Perché un conto è l’ammirazione verso una bestia rara, un conto è la bestia rara che si fa leader di un movimento di successo inarrestabile: lì o segui o combatti, non puoi più ammirare.

È però successo che il Barcellona fosse così avanti che a lungo nessuno è stato capace di seguirlo o di combatterlo. Ma non è vero, come dice Dalai, che l’obiettivo del Barcellona è l’umiliazione dell’avversario. L’obiettivo è sempre stata la vittoria. Solo che quando la tua superiorità è schiacciante hai due strade, umiliare l’avversario coi gol o umiliarlo fermandoti. Io sono tra quelli che pensano che fermarsi sia peggio. L’umiliazione resta, ma è la conseguenza del divario qualitativo, non un’intenzione.

L’intenzione è vincere, con la consapevolezza che per vincere si deve continuamene evolvere. Nel calcio il conservatorismo non paga, e forse nei fatti neanche esiste. Ogni volta che una squadra trova un sistema migliore per giocarlo deve dare per scontato che gli altri la studieranno, si adegueranno, troveranno un antidoto. Inevitabilmente quel sistema sarà superato. Spesso si considera il Barça di Guardiola come un entità immota e sempre uguale a se stessa, ma basta ritornare alla finale di Champions del 2009, la prima vinta da Pep, per capire che anche il Barcellona in questi quattro anni è cambiato moltissimo. Un dato su tutti: in quella partita il tiki-taka produsse un misero 51% di possesso palla (e un 48% nel secondo tempo che sembra incredibile, a pensarci oggi).

Dunque l’obiettivo del Barcellona, vincere le partite di calcio, è stato raggiunto con tremenda efficacia, ma ciononostante è necessario continuare a evolvere. Che poi, anche volendo, fermarsi a quel punto non si può. Si vuole la luna, e dopo la luna si vuole Marte: “because it’s next” vale certamente anche per il calcio. Il Barça è sì una guida, ma il suo avversario, forse ancor’oggi, sono i suoi limiti. Ha fatto un salto così lungo che è rimasto solo. Non potendo fermarsi, è diventato questa immensa ambizione di pianificare una partita annientandone il caos intrinseco. Il Barcellona è una di quelle opere filosofiche che non si scrivono più, quelle che cercavano di comprendere e racchiudere l’universo. È 2001: Odissea nello spazio, o forse The Tree of Life.

Ma c’è una qualche possibilità che l’utopia si realizzi? No. Siamo seri. Le utopie o non si realizzano o non sono utopie.

E c’è qualche ragione per detestare un’ambizione? Non credo. In altri campi forse sì. Nel calcio, perché mai?

E allora siamo sicuri che chi odia il Barcellona ami il calcio? Il calcio preso nella sua evoluzione, inteso come la successione dei modi per giocarlo e delle strategie utilizzate per vincere. Amare il calcio significa anche lasciarlo libero di cambiare, di andare dove crede e rifiutare l’idea che esistano delle specie da proteggere (e vediamo di non idealizzare catenaccio e kick & rush, perché i gol quei sistemi li fanno a volte in contropiede, sì, ma molto più spesso da calcio d’angolo. E non credo sia un caso che, come ha evidenziato Manusia, le prime critiche al Barça siano arrivate dall’Inghilterra, cioè il paese calcisticamente più conservatore d’Europa).

Qundi che cosa succederà? Dove mai andremo a finire di questo passo? Giocheranno tutti come il Barcellona, tra dieci anni? Ovviamente no, e per una ragione ben precisa: è impossibile, il pallone è uno solo. Però molte squadre, a modo loro, ci stanno provando, e qualche principio di gioco certamente resterà. Non è poi così male, fateci caso: è un periodo in cui si vedono in campo quelli che un tempo stavano in panchina per far spazio a Bernardo Corradi. Poi, dato che ci siamo, ripensate per piacere ai dualismi cronici, alle “incompatibilità” e alle atroci staffette tra le due migliori mezzepunte azzurre; magari cercate anche di non dare per scontata questa nazionale che oggi gioca con tre o quattro uomini di fantasia e tecnica contemporaneamente.

E se amate la velocità, la ripartenza, la furia, bene: in questo stesso periodo, stimolata anche dalle sfide poste dal barcellonismo, l’arte del contropiede ha raggiunto livelli d’eccellenza – il Real di Mourinho, il Dortmund di Klopp, il Napoli di Mazzarri – capaci di battere il Barcellona stesso.

La verità è che oggi il calcio è bello, sta bene, ed è anche merito delle ambizioni e delle utopie Blaugrana. Quindi niente, è tutto a posto, questo gioco non è finito, state tranquilli. Perché non importa quanto ti alleni, quanto ti programmi, quanto ti organizzi: nessuno è perfetto. Tranne il pallone.

 

[Matteo Gatto è su Twitter, il suo blog si trova qui]

17 thoughts on “Chi odia il Barça ama il calcio?

  1. El_Pinta

    Il Barca è come Tree of Life hai ragione: un’agonia insopportabilmente lunga…scherzi a parte, in tutti questi articoli non si fa mai menzione di quello che, a mio avviso, è l’aspetto più antipatico del Barcellona degli ultimi anni. Ovvero di quel marketing insistente che ha cercato di trasformare una squadra di calcio, coi suoi pregi (il gioco spettacolare e vincente) e i suoi difetti, in un racconto fatto di buonismo e sentimenti positivi che facesse presa sulle emozioni.

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    1. Antonio

      Non credi che invece sia questa una delle sue più grandi forze? Il trasformare il calcio in un valore positivo: non solo ultrà teppisti, presidenti e/o allenatori protagonisti. Il Barça ha ridato valore al pallone e alla squadra…e la scelta di Vilanova è un ulteriore processo in questo senso. Sinceramente non vedo nulla di negativo per far prevalere una volta tanto nel calcio il buonismo ed i sentimenti positivi. E, ti dirò (ma su questo potrei essere smentito molto rapidamente) anche Mourinho mi sembra se ne sia fatta una ragione. Se prima attaccava il Barça con una certa frequenza e con motivazioni francamente ridicole, ora non lo fa più. Ha capito che sarebbe controproducente.

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      1. El_Pinta

        No per niente, perché come ricorda pete85 qui sotto il Barca, come ogni altra squadra, ha l’obiettivo di vincere e per raggiungere questo obiettivo non lesina in scorrettezze di vario genere. Ma questo non sarebbe un problema se non si tentasse di nascondere questa realtà sotto il tappeto fatto dal “sorriso di Ronaldinho che è uno spot per il calcio” o dal logo “unicef” sulla maglia.
        Un conto è avere dei valori, un altro conto è pretendere di averli per vendere un prodotto.

  2. pete85

    Ok sul sistema Barca, ma non ci scordiamo delle grandi prove di antisposrtività che ci offrono i giocatori blaugrana. Teatrini, simulazioni, per finire sulla pessima messa in azione dell’impianto di irrigazione dopo la semifinale Barca-Inter…Insomma nessuno è perfetto è proprio il detto adatto…

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    1. Tommaso

      E dunque, questo articolo è fuori tempo massimo. Ora si, possiamo tirare un sospiro di sollievo, il calcio non è finito. Ma fino alla semifinale dell’anno scorso no, e dunque odiare il Barça voleva dire amare il ( o una certa concezione del) calcio. Amarla in modo moderno, e cioè con il terrore della perfezione.

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  3. Matteo Gatto

    A me the Tree of Life è piaciuto. Non perfetto, eh. Ma bello e ambizioso. 🙂

    Non mi piace invece quando si cerca l’incoerenza in chi sta palesemente tentando di essere un po’ migliore, in qualunque campo.

    Il Barça non sempre ci riesce, è ovvio e umano (nessuno è perfetto) però mettere Unicef sulla maglia invece che bwin (una a caso) è un gesto bello e significativo che ha un costo economico. A Barcellona lo sostengono anche facendo dell’etica, della retorica della cantera, del més que un club, eccetera, un brand. Neanche a me fa impazzire, ma chiedere pure che non facciano marketing coi loro punti di forza mi pare un po’ troppo. I soldi servono anche a loro, non solo al PSG.

    Simulano e fingono? Alcuni sì (Busquets e Dani Alves), altri proprio no: http://www.youtube.com/watch?v=I0gS5CshUDE
    E gli avversari sono spesso meno gentili del solito con loro.

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    1. El_Pinta

      Scusa Matteo ma non sono per niente d’accordo con questo tuo commento.
      Qui non si tratta di essere un po’ migliori rispetto a un ambiente deteriore. Quelle del Barcellona sono tecniche di marketing ben precise, non un tentativo di migliorarsi o fare del bene.
      Creare una narrazione incentrata sui buoni sentimenti e le emozioni positive è la stessa operazione che nel marketing ambientale si chiama greenwashing e nella comunicazione d’impresa corporate social responsability.
      Mettere sulle maglie il logo Unicef non è un modo per monetizzare in maniera positiva la visibilità creata dal brand Barcellona, anche perché non Unicef a pagare per avere quella visibilità, ma è il Barcellona a pagare per poterlo avere.
      Sono moderne forme della topica della pietà che hanno come scopo quello di creare un sentimento positivo intorno al brand per aumentarne il valore (ne è la riprova che i ricavi del marchio Barcellona siano aumentati proprio in coincidenza della presidenza e del management di Laporta, che ha introdotto sagacemente queste tecniche.
      Per quanto mi riguarda è questo aspetto a rendermi insopportabile il Barcellona, questo tentativo di supercazzolarmi dicendomi “noi siamo più migliori degli altri, guarda qui, aiutiamo i bambini e giochiamo per divertirci”, quando poi, se si deve vincere una partita difficile, si ricorrono alle stesse bassezze assai diffuse nel calcio.
      Poi sulla retorica della cantera e su quanto quel modello di gestione delle risorse umane sia economicamente, socialmente e umanamente discutibile non mi dilungo.

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      1. Matteo Gatto

        Figurati, non c’è niente di male a non essere d’accordo. 🙂

        A me sembra che tu non contesti al Barça il fatto di (tentare di) essere un po’ migliore, ma che di questo esser migliore ne faccia un brand che porta ricavi. Cosa che me sembra comprensibile, se non logica.

        Quello tra Barça e Unicef è un accordo, non è che i primi sfruttano l’immagine dei secondi a tradimento. Anche l’Unicef ha tratto beneficio dal Barça e questo mi pare un’effetto indubbiamente positivo, al di là di ogni ipotetico greenwashing. Un tentativo riuscito di essere migliore.

        E Laporta ha vinto tre Champions dall’elezione (e sorvolo sul come e su tutto il resto), sarebbe davvero strano i ricavi non fossero saliti.

  4. Pingback: Una di quelle cose di cui si parlerà per decadi « eddaje!

  5. Giulioso Mazzi

    Credo che siano due piani diversi di discussione anche se collegati tra loro: l’obiettivo di campo e l’obiettivo societario. Il marketing è uno strumento della società per ricavare i fondi necessari da investire nel tentativo di conseguimento dell’obiettivo di campo (la vittoria esteticamente appagante).
    Inoltre mi sembra un esercizio un po’ ingenuo quello di dipingere il marketing del Barça – ” un racconto fatto di buonismo e sentimenti positivi che facesse presa sulle emozioni.” – come un disonesto tentativo di manipolare la realtà per guadagnarci qualcosa. E’ semplicemente la natura stessa del marketing.

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    1. El_Pinta

      Ma chi ha mai detto che il marketing Barca è un tentativo di manipolazione della realtà? E neppure, per rispondere a Matteo più sopra, che non debba ricavarci sopra dei soldi.
      Io dico che grazie al marketing si è diffusa la percezione del Barca come squadra pulita, onesta, che gioca IL calcio con la C maiuscola e che tutte le squadre che l’affrontano o perdono o, se vincono, vincono giocando l’anti calcio. Sfido chiunque a sostenere il contrario.
      Tutto questo mi rende il Barca insopportabile, come qualsiasi fenomeno che mira a creare una polarizzazione che annulla ogni possibile critica.
      Il Barca è come Saviano o Beppe Grillo, crea fede non conoscenza. Adepti non appassionati.

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      1. Tommaso

        A tutti stanno antipatici i boyscout ed i Disney club, ma l’antipatia non é un’argomento.

        Il Barca é la migliore squadra che io abbia visto giocare ed una delle migliori di sempre. Questi sono fatti. Il tipo di gioco a me non piace, ne mi piace il fighettismo boyscout che emana, pero’ sono piu forti di tutti. E fanno pure bene a mettere UNICEF sulla maglia, visto che funziona meglio di qualsiasi sponsor.

        La critica del Barca é possibilissima, non capisco chi ti impedisca di farla. L’hanno fatta molto bene Mourinho qualche anno fa e Di Matteo l’anno scorso.

        Peró capisco quello che dici: la perfezione fa una gran paura. E fino a qualche tempo fa, sembrava li, in quella maglietta blaugrana.

  6. Marco F.

    d’accordo con un pezzo che vale la pena di leggere se non altro per la raffinata citazione da West Wing! 🙂 È normale che “i migliori” a fare qualcosa suscitino opinioni forti e contrastanti. Quando una filosofia è applicata in maniera così radicale e ha un successo così grande, non puoi restare indifferente: o la ami o la odi. Per quanto riguarda il marketing, quello del Barcellona è finto buonismo? No: l’obiettivo del marketing è diffondere il brand, dargli un’identità immediatamente riconoscibile e massimizzare il ritorno economico. Loro lo fanno benissimo, e se questi obiettivi vengono raggiunti con mezzi e messaggi positivi, non vedo cosa ci sia di male. Comunque, suggerisco a chi odia il Barcellona di riguardarsi l’ultimo clasico: una squadra fantastica che gioca contro un rivale fantastico, ritmi forsennati, spettacolo e tanti gol. Quella roba è IL calcio, altro che odio.

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  7. Giuseppe_ruggiu

    Più che come Saviano e Grillo, a me il Barcellona sembra come la Apple. Un congegno perfetto, un brand rinomato per la qualità del prodotto, i continui riferimenti alla genialità e alla perfezione, gli adepti. E sappiamo come possa essere tossico questo tipo di narrazione…

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  8. Ciava

    Io credo che l’essenza del Barça si possa veramente sintetizzare nel loro motto: més que un club. In quanto entità complessa e varia. A livello calcistico si può amare o odiare, rispetto a molti fattori: da aspetti tecnici e quindi il gioco che propone, ad aspetti morali e quindi scelte societarie. Molti miei amici odiano il Barça per uno strano effetto hollywoodiano, che li porta a parteggiare per chi parte in svantaggio, per il più debole, per Davide al cospetto di Golia. Sono convinti che se il Barcellona può perdere allora è vero: il Calcio è il gioco più bello e più imprevedibile del mondo.
    Per quanto riguarda il fatto di associare il Barcellona a Saviano o Grillo non sono d’accordo, o almeno non lo sono in parte. Il problema non nasce con Saviano, con Grillo o con il Barcellona bensì con il culto degli adepti. Si può idolatrare Saviano o si può intellettualmente riconoscerli alcuni pregi e difetti (personalmente io non capisco la sua posizione su Israele, ma questo non toglie il fatto che possa apprezzarlo per altre cose). Il problema che vuole sottolineare El Pinta credo sia quello di trovarsi a discutere spesso di calcio con gente ubriaca di Barcellona, che ripete a vanvera la lezioncina del bel calcio, senza sapere da dove viene e senza saper affrontare un’analisi profonda e complessa del fenomeno Barça.
    Per concludere io tifo Barcellona ma questo non mi impedisce di criticare alcune scelte come l’accordo con la Qatar Foundation, gli intrallazzi di Laporta e Rosell o l’ultima decisione di invitare il soldato Shalit per il Clasico, ma non posso negare che sono affascinato dal fatto che il Barcellona sia riuscito a rendere realtà il fatto che giocatori cresciuti insieme dalla prima adolescenza possano militare nella squadra più forte del mondo e vincere di tutto.
    Il Barcellona essendo giocatori, tifosi, dirigenza e molto altro ancora non può essere colorato né di bianco né di nero, come tutte le realtà è qualcosa di più complesso, pieno di sfumature che da quelle parti in Catalogna chiamano “blaugrana”.

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