Heysel

[Riceviamo e pubblichiamo da Domenico Mungo, autore di “Cani sciolti”]

di Domenico Mungo

È la causa e non semplicemente la morte che crea un martire. (Napoleone Bonaparte)

29.05.1985
Finale di Coppa dei Campioni Juventus-Liverpool
Stadio “Heysel” di Bruxelles, Belgio

«Il Liverpool è forte, ma noi sappiamo di poterlo battere» – disse Platinì. «Ci eravamo già riusciti a Gennaio, al Comunale di Torino, quando si giocò col pallone rosso dopo un’incredibile nevicata. Boniek fu magnifico, quella sera. Due a zero per noi e doppietta di Zibì, così vincemmo la Supercoppa».

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Stadio Heysel, Bruxelles, 29 maggio 1985

Grand Place

Alle dieci di mattina del 29 maggio 1985, la Grande Place di Bruxelles era già una moquette di vetri spezzati. Gli inglesi bivaccavano ovunque. Molti dormivano per terra sfiniti usando come cuscini i cartoni di birra, scatoloni ormai mezzi vuoti dopo una lunga notte di bevute e pisciate, e le bottiglie svuotate venivano lanciate in terra come bombe a mano, oppure in aria, per gioco. La struttura dell’Atomo, che campeggiava dietro la collinetta che si affacciava sulla curva Z, era un’enorme installazione di acciaio, piena di scale mobili e vetrate, che si stagliavano in un cielo di un azzurro vivido e irreale. Tale costruzione futuristica avrebbe dovuto celebrare la maestosità dell’ingegno e dello scibile umano. Un azzardo quasi blasfemo col senno di poi.

Era una bellissima giornata, il sole splendeva sereno e la temperatura era discretamente alta. Nelle numerose piazze di Bruxelles tutto era uno sventolio di bandiere e sciarpe, ora bianconere juventine, ora rosso fuoco del Liverpool. I roboanti canti dei tifosi inglesi riecheggiavano nelle strade di Bruxelles e si confondevano con i canti più disordinati e occasionali dei tifosi italiani. Inglesi e italiani erano promiscuamente liberi di frequentarsi: l’atmosfera era amichevole, con risate, scherzi, scambi di sciarpe e reciproco rispetto a tener banco.

 

Prologo di un massacro

Verso le 16 migliaia di tifosi juventini sono accalcati in paziente attesa dell’apertura dei cancelli della curva riservata agli ultras e ai club organizzati provenienti dall’Italia (diametralmente opposta al settore Z). Il primo sintomo di irritazione avviene proprio in quei momenti. Sono ore che aspettano sotto il sole che quei cancelli vengano aperti. Ma questo non pare essere un eccessivo problema, se non fosse stato per la polizia belga. Polizia che pensò bene di non rinunciare al suo pittoresco aspetto, presentandosi – in mezzo a migliaia di persone – a cavallo… E questi cavalli che pattugliavano in mezzo ai tifosi, ovviamente irritati da tanto chiasso e tante persone, sbuffavano e scalciavano, provocando ondate di movimento da parte dei tifosi, senza contare gli escrementi lasciati a pochi centimetri dagli stessi. I pochi gendarmi a piedi si aggiravano spaesati e disorientati brandendo improbabili bastoni di legno.

Lo stadio di Bruxelles si distingue per la sua fatiscenza: decrepita, anacronistica, colpevole come e quanto la Uefa di averla prescelta come sede di una finale tanto sentita. The Match of the Century!, “La Sfida del Secolo!” come tuonavano a nove colonne i tabloid e i mags inglesi sparsi, stracciati e appallottolati di escrementi, sul selciato del piazzale dell’antistadio. Alcuni tifosi inglesi, battendo fortemente il tacco della scarpa sui gradoni, staccavano facilmente pezzi di pietre e mattoni, imbottendosi le tasche di proiettili. Inoltre lo stadio era fortemente affossato rispetto al livello latitudinale della strada, in quanto il terreno di gioco si estendeva all’interno di una conca sotto una collina, ragion per cui il muretto di cinta che separava la curva dai cancelli d’ingresso veniva scavalcato con irrisoria tranquillità, sotto l’occhio ebetico e impotente delle poche decine di gendarmi belgi. C’erano inglesi che venivano fatti entrare tranquillamente senza perquisizioni. Alcuni entravano in massa con spranghe e pezzi di cemento divelti nel piazzale dell’ingresso al settore Z. Altri trasportando casse intere di birra e bottiglie di alcolici. Molti sprovvisti di biglietto o con tagliandi di altri settori scavalcarono o sfondarono i portoni di legno delle curve.

Un servizio d’ordine ideale per una finale di così grande importanza!

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Il servizio d’ordine

Settore “Z”

Il cielo dietro il settore Z era arancione, pareva il riverbero del rosso delle bandiere inglesi, delle suggestive scarpate, delle maglie, delle canotte, delle pitture sui volti stralunati dei famigerati “Reds”, i tifosi del Liverpool, conosciuti, temuti e rispettati in tutta Europa per la loro fama di Firm passionale, violento e aggressivo.

La curva Z è un’immensa marea rossa. I canti tornano ad echeggiare dentro lo stadio, questa volta più forti di prima e la festa continua, bellissima più che mai: “You’ll Never Walk Alone!”. È un ruggito. È il bello del tifo inglese.

I Reds erano stati ammirati solo un anno prima, all’Olimpico di Roma, in occasione della finale di Coppa dei Campioni contro la Roma di Falcao, Conti e Di Bartolomei. Persa da quest’ultimi a seguito di una drammatica lotteria di rigori.

Anche lì gli hooligan si erano fatti ammirare per il colore, la compattezza nei cori, l’imponenza del proprio essere. Uno spettacolo nello spettacolo di un Olimpico giallorosso gremito e catartico come non mai. Anche lì gli inglesi si erano dimostrati violenti e pericolosi nelle giornate di scontri che avevano incendiato la capitale d’Italia.

Ma lì gli scontri erano stati fra fazioni consenzienti. Fra hooligan e ultras romanisti. E pare che le cronache raccontassero che i famigerati hools d’oltremanica non sempre avessero la meglio. Anzi. Ma all’Heysel la situazione non era la stessa. Non sarebbe potuta essere la stessa cosa. Non c’erano i presupposti affinché si verificassero scontri fra “pari”.

C’erano solo i presupposti per un cieco e colpevole massacro di innocenti.

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* * *

Venne proposta una partitella fra ragazzini. Casualmente indossavano tenute bianche e nere da una parte e rosse dall’altra. Ovviamente gli juventini parteggiavano per quelli in maglia bianca, viceversa i tifosi del Liverpool per i ragazzi in maglia rossa.

Nel bel mezzo della partitella un razzo partì dal settore riservato agli inglesi per giungere in quello riservato ai tifosi italiani. Gli juventini erano in numero nettamente superiore. Per questo motivo, che si rivelerà fatale, venne deciso che la curva Z fosse divisa in due e separata da una semplice doppia rete metallica, in maniera da accogliere gli spettatori italiani in eccesso. In quella zona (in particolare il cosiddetto settore Z che non sarebbe mai dovuto esistere) prese posto il maggior numero di famiglie italiane e belga, centinaia di emigrati, gente proveniente con agenzie sub-relegate da tutta Italia, specie dal sud e dal centro, qualche torinese che non era riuscito a trovare posto coi suoi amici e fu mandato in quel settore già dalle agenzie di viaggio dall’Italia. Qualche altro infine, più sfortunato, che fu dirottato lì sul posto. Alcuni sopravvissuti narreranno poi che, dalla foga e dall’emozione, avevano letto sul biglietto d’ingresso settore “Z” anziché “N” e solo all’ultimo, accortisi della svista, avessero cambiato destinazione. Intuizione quanto mai provvidenziale.

Il tifo organizzato, i Fighters e tutti gli altri gruppi più decisi e violenti della tifoseria bianconera erano sistemati nella parte opposta: nei settori O, N ed M.

 

Take the end

Alle 7 di sera si stava benissimo dentro lo stadio Heysel, c’era un fresco primaverile e le bandiere garrivano nel cielo azzurro. Un’orgia di colori e cori. Ma l’arrivo di quel razzo nel settore juventino aveva provocato uno spostamento di massa per allontanarsi dai tifosi inglesi. Ma lì sembrò finire. Gli italiani invece pensarono bene di riavvicinarsi per inveire contro gli inglesi, scagliandosi contro le reti che li dividevano. La provocazione verbale partì dai supporter inglesi ubriachi. Una risposta ci fu da parte di 2/3 ragazzetti di 10/11 anni l’uno che tirarono qualche carta di giornale e qualche sassolino al di là della fragile recinzione: una rete da pollaio a dividere le due tifoserie con 4/5 poliziotti a fare da pseudo-cordone.

Il resto della gente guardava seduta e divertita. Gli hooligan si scagliarono a loro volta contro le reti, reti che ben presto caddero. Partirono tre cariche a onda al grido di “take the end, take the end!” con un intervallo di 1/2 minuti tra avanzata e ritirata. Alla seconda carica la gente era già ammassata contro il muretto. La terza fu solo per schiacciarli definitivamente. Durante la prima qualcuno trovò scampo nei canaloni affianco ai gradini. Altri schiacciati e altri ancora caddero dal muretto. Le due tifoserie, o meglio, gli hooligan e le famiglie italiane, vennero a contatto. Queste non poterono far altro che fuggire di fronte alla furia degli inglesi, accalcandosi verso il muretto inferiore dello stadio, schiacciando e soffocando quelle che già si trovavano verso il basso. Forse se ci fossero stati gli ultras bianconeri, paradossalmente, la tragedia non si sarebbe verificata, perlomeno in siffatte proporzioni. Tutto, forse, si sarebbe esaurito in un cruento scontro fra pari, con feriti e forse qualcosa di più, ma nulla avrebbe causato l’effetto rinculo e il crollo del muretto.

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Gli attimi iniziali dello “sfondamento” dei Reds

Bloodbath, bagno di sangue

La prima onda sembrò quasi un’illusione ottica, come se l’Heysel fosse un setaccio e qualcuno lo stesse agitando dall’alto con due immense mani imbrattate di sangue. I rossi si spostavano verso i bianconeri, ritmicamente, a orda, dal punto più lontano a quello più vicino alla tribuna centrale. E nell’aria volavano clave, aste, bottiglie di vetro e persino qualche mattone che la polizia belga non aveva pensato di rimuovere.

Molti italiani vennero colpiti in uno contro dieci dai Reds e gettati contro le balaustre divelte. Due o tre persone rimasero squartate… Mentre tutti si accalcavano verso il muretto, sugli spalti c’era campo libero e alcuni, tra i Reds, continuavano a inveire sulle persone a terra. Bandiere e striscioni bianconeri furono stracciati e dati alle fiamme. Le sciarpe della Juve celebrate come cimeli di guerra.

I tifosi italiani cercavano scampo ovunque, alcuni si salvarono salendo sulle impalcature in cima alla curva, altri camminando sui corpi di chi era stato già sopraffatto dalla prima ondata omicida. I gendarmi, anziché soccorrere e proteggere gli italiani che cercavano scampo sulla pista di atletica e sul terreno di gioco, iniziarono a manganellare alla cieca contribuendo a innalzare il panico e la confusione.

La seconda e la terza ondata fecero crollare il muretto alla base del settore Z (gli inglesi attaccavano dai settori Y e X), e le persone si rotolarono addosso. Tutti morirono per schiacciamento, soffocando, calpestati.

“Ci sono dei morti” fu la terrificante frase che cominciò a circolare impazzita in tribuna stampa. Le transenne, ormai travolte dalla folla, iniziarono ad essere disposte sul campo come improvvisate e macabre barelle.

I corpi esanimi di tifosi senza scarpe e con il ventre gonfio o squarciato vennero disposti in fila dietro il muretto crollato e coperti pietosamente con bandiere e striscioni bianconeri. Il bagno di sangue era avvenuto. Una delle più immani tragedie mai verificatesi in uno stadio di calcio europeo. Dal settore opposto non si capì un granché. Sembravano solo tre cariche e neanche pericolose, visto che gli inglesi non caricavano all’italiana. Ma avanzavano e indietreggiavano a ondate: più che altro a scopo che da lì, dall’altra curva, appariva “dimostrativo”, esercitando la pratica rituale del “take the end”, ovvero, della conquista della curva avversaria.

Dalla curva dei Fighters quelle cariche “strane” sembravano solo “piccoli contatti” che si risolvevano con gente “normale”, non ultras, che cercava scampo sul prato. Ma ad un tratto, piano piano, si diffuse qualche notizia (non c’erano telefonini, né radioline italiane) che parlava di scontri gravi e di alcuni morti fra i tifosi italiani. La curva dei Fighters, degli Indians e della GBN (Gioventù Bianconera) perse la testa. Si videro decine di giovani che si coprivano il viso con sciarpe, magliette, foulard e passamontagna. Il clima di festa e partecipazione all’attesa dell’evento si tramutò in tensione violenta, palpabile, vendicativa. Si armarono sciami di ragazzi con i sassi divelti dalle gradinate fatiscenti a botta di calci e sprangate. La rete di recinzione fu scardinata e dal grosso buco decine di juventini penetrarono sulla pista di atletica travolgendo i militi belgi che vanamente cercavano di opporsi all’invasione. Chi brandendo aste delle bandiere e dei bandieroni che venivano mulinate nel cielo, altri con cinte e bottiglie di vetro, iniziarono a scaramucciare con i gendarmi e con gli avamposti di inglesi che stazionavano nei settori adiacenti del rettilineo centrale di fronte alla tribuna stampa.

Intervenne più volte la gendarmeria cercando di dissuadere le due fazioni in lotta e disperdere i facinorosi. Andò avanti così per minuti che sembravano interminabili, con le immagini degli scontri trasmesse in diretta in Eurovisione. Mentre sul secondo canale italiano, la nazionale azzurra, priva dei titolari bianconeri, disputava un’inutile e inerte amichevole a Puebla contro gli Stati Uniti per acclimatarsi alle alture messicane in vista del Mundial di Mexico ‘86.

Ad un tratto sulla pista di atletica, sotto la curva bianconera in tumulto, si fece largo un giovane che indossava un giubbino verde e dei jeans. Tirò fuori una pistola e la puntò minacciosamente contro i gendarmi e la curva inglese. Si saprà poi che era una scacciacani. Divenne una delle immagini emblematiche di quella notte di follia collettiva.

Un fotografo inglese, un biondino con la maglia della nazionale dei bianchi, fu colpito da una sassata sulla testa che iniziò copiosamente ad eruttare sangue zampillante. Per giunta fu anche numerosamente manganellato dalla polizia.

Sono solo alcuni fotogrammi dalla tragedia. Miliardi di altri rimarranno per sempre impressi nella memoria di chi c’era e di chi vide da casa. Di nuovo si cercò una carica verso gli inglesi organizzata da una cinquantina di persone che però furono fermate subito.

Fu allora che uscì fuori anche lo striscione “Reds animals”, dietro il quale i Fighters improvvisarono un corteo, fitto di braccia tese e volti coperti, anch’esso stoppato all’inizio del rettilineo centrale sulla pista di atletica.

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Lo striscione “Reds Animals”

Surreale realtà

Gianni Agnelli, giunto poco dopo la strage in auto sotto la tribuna Vip, fu invitato dai dirigenti della Juve, della UEFA e del governo belga a tornare in fretta in albergo. Suo figlio Edoardo, in smoking e sciarpa bianconera, dapprima stravolto e incredulo sul prato ad osservare i cadaveri, si accasciò stremato sulle scale degli spogliatoi.

I giornalisti italiani furono assediati dai compatrioti scampati alla strage che, con ancora l’orrore negli occhi, li pregavano di comunicare alle loro famiglie in Italia che stavano bene. Quelli inglesi si chiusero in un rispettoso silenzio. La partita non si doveva giocare, dissero in molti. Per rispetto di tutti quei morti e feriti che giacevano a pochi metri dalle loro scrivanie, dalle loro macchine da scrivere. Ma come si poteva fare per evacuare un impianto che ormai di sportivo non aveva nulla? Era un immenso campo di battaglia, gravido di violenza pronta a detonare. Gli inglesi, come placati, si erano sistemati sulle gradinate della morte, bivaccando fra le macerie e le bottiglie rotte. Come se nulla fosse, ricominciarono a cantare e a chiedere, impazienti, l’inizio del match.

Poi, ad un tratto, dall’altoparlante, si udì una specie di sospiro. La voce di Gaetano Scirea, capitano della Juventus, sussurrò nel microfono dell’altoparlante: “la partita verrà giocata per consentire alle forze dell’ordine di organizzare l’evacuazione del terreno. State calmi, non rispondete alle provocazioni. Giochiamo per voi”. Parlò poi anche Neal, il capitano del Liverpool, da quello stesso microfono. Entrambi asserragliati dentro il gabbiotto dello speacker dello stadio Heysel. Lesse lo stesso annuncio di Scirea, ma con una gravità nell’intonazione tutta britannica, inesorabilmente devoto ad un aplomb macchiato dal senso di colpa nauseabondo per ciò che i “suoi” tifosi avevano fatto. E che in seguito lo costringerà ad abbandonare il calcio giocato.

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Vendetta

La partita del secolo

Vinse la Juve, grazie a un rigore inesistente. Minuto 58° di una gara che ristagna a centrocampo. Disputata da atleti molli, stravolti e bloccati dalla paura. Fallo di Gillespie su Boniek, abbondantemente fuori area. Il titubante arbitro svizzero Daina, risoluto per l’unica volta durante tutto il match, indica il dischetto fra le fragili proteste dei giocatori del Liverpool.

A battere il rigore si presenta il numero dieci transalpino. È il minuto 60 di una finale iniziata con un ritardo pesante come il piombo. Grobbelar, il pirotecnico e folcloristico portiere sudafricano dei Reds, che l’anno prima fra manfrine e sceneggiate era riuscito ad ipnotizzare prima Conti e poi Graziani, fu superato dal gol di Platini. Esultanza surreale. In uno stadio a forma di bara. Dopo qualche minuto Bonini atterrerà Whelan in piena area bianconera. Daina, risoluto come prima e più di prima, farà correre.

Qualche secondo prima del 90°, il direttore di gara elvetico bloccherà la palla con le mani nel cerchio di centrocampo e sancirà la fine di una gara senza storia. Era appena terminata la partita del secolo. Una delle più buie, tristi e brutte partite della storia del calcio. Davanti alla tribuna stavano i morti in fila, i morenti, i feriti. Le transenne vennero usate come barelle da medici che tentavano tracheotomie. C’era tanto sangue, e gole aperte. Assurdi gendarmi a cavallo andavano su e giù roteando i manganelli come in una comica di Ridolini.

La tv non diede l’esatta misura della mostruosità. La voce stentorea di Bruno Pizzul era entrata in tutte le case italiane con un tatto profondo al limite dell’omissione della verità, fino a quando non dovette ammettere che: “purtroppo una terribile notizia è giunta qui in tribuna stampa. Ci sono dei morti, pare cinque o sei… forse otto…”.

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La targa commemorativa della tragedia presso lo Stadio Re Baldovino di Bruxelles (ex Stadio Heysel)

The shame

Sul posto le cose erano diverse: i tifosi allo stadio avevano capito, però non potevano sapere che i cadaveri erano addirittura 39.

La Coppa dei Campioni venne consegnata alla Juventus negli spogliatoi. La cerimonia sarebbe apparsa decisamente posticcia e fuori luogo, con i morti ai margini del parterre de roi. Platinì, Cabrini, Tardelli, Bonini e qualche altro fecero il giro del campo. Potevano evitarlo, si disse poi.

Certo, dovevano evitarlo. Ma in quel film dell’orrore che era diventato lo stadio di Bruxelles, il grottesco dei festeggiamenti sotto la curva degli ultras bianconeri, sembrava essere semplicemente la logica conseguenza di una irreale realtà.

Il macabro trofeo scese dall’aereo a Torino, sventolato da Sergio Brio e Michel Platinì sorridenti. Fu messo poi in una teca di vetro dentro la sede della società bianconera.

In Galleria San Federico (oggi si trova nella sede bianconera di Corso Galileo Ferraris, nda) a Torino, nel lastricato ed elegante centro del rigoroso capoluogo sabaudo. Una lastra di vetro frapposta tra la squadra, la società di calcio Juventus FC e il mondo reale fatto dai sui tifosi segnati da una tragedia immensa. Una lastra di vetro imbrattata di sangue, raggrumato e molto spesso. Come una macchia sulla coscienza. Indelebile.

Qualcuno disse che andava restituita. Che era imbrattata di sangue. Che quella partita non esisteva, era solo “un motivo di ordine pubblico”. La Juventus fece finta di non udire il grido di dolore dei suoi stessi tifosi. Così come dimenticò per molti anni i suoi martiri. La Coppa dei Campioni stava là dietro come per proteggersi, per illudersi che non fosse stato vero. Che tutto quell’orrore non era nel calcio. E che in ogni caso lo spettacolo deve continuare.

«Quando al circo muore il trapezista, entrano i clown» disse cinico Michel Platinì in un’intervista davanti a decine di cronisti sudati e increduli. Allora sembrò una bestemmia, invece era qualcosa di assai più orribile e definitivo. Era la verità. Sebbene vergognosa, cinica, spietata. Era la sacrosanta verità.

***

Per saperne di più:

Video: parte 1 della diretta TV su YouTube
Testi: Cani Sciolti – di Domenico Mungo, scheda su boogaloopublishing.com
Siti web: interviste su saladellamemoriaheysel.it

9 thoughts on “Heysel

  1. gabriele venditti

    Nell’ ’85 avevo tredici anni. A casa mia nessuno guardava le partite in tv. Neanche io. Fu per un caso che quella volta era accesa. Rimasi fermo davanti allo schermo. Si rallenta sempre, ci si ferma, a guardare oltre il guard rail lamiere e teli bianchi col desiderio non dichiarato di vedere la morte da vivi.
    Ricordo la voce di Pizzul, così adatta a commentare tragedie. Ricordo lo sgomento – sentimento poco usurato a quell’età – e la rabbia nel veder giocare là dove si sarebbe dovuto, come dovunque nelle camere ardenti, rimanere in silenzio a fissarsi le scarpe (a tredici anni il mondo è chiaro, spaccato a metà come un cocomero per la prova: ci sono buoni e cattivi, ragione e torto. Non si capisce la ragion pratica, la convenienza, l’opportunità: ora, certo, sarei con Platinì e il suo lucido cinismo).

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  2. Michele Scimè

    Caro Domenico, quel giorno all’Heysel, nel settore Z, c’ero anch’io. Mi fa un certo effetto notare come larghissima parte del tuo racconto coincida – eppure non ci conosciamo – addirittura parola per parola con la testimonianza che più volte in questi anni mi è capitato di portare ad amici e appassionati di sport.
    E’ impossibile dimenticare quello che è accaduto sotto i nostri occhi, ma spero che dell’Heysel e di quel che accadde quella sera si continui sempre a parlare e che nessuno, soprattutto fra quelli che quel giorno a Bruxelles non c’erano e soprattutto i più giovani, dimentichi quella tragedia affinchè non si ripeta mai più niente di simile.

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  3. NeMo

    “Platinì, Cabrini, Tardelli, Bonini e qualche altro fecero il giro del campo. Potevano evitarlo, si disse poi.

    Qualcuno disse che andava restituita. Che era imbrattata di sangue. Che quella partita non esisteva, era solo “un motivo di ordine pubblico”. La Juventus fece finta di non udire il grido di dolore dei suoi stessi tifosi. Così come dimenticò per molti anni i suoi martiri.”

    una tragedia che lascia senza parole. e senza fatti da parte della società bianconera. la partita non andava giocata, la coppa non ritirata, nessun sorriso, nessuna festa. ma come è anche solo pensabile? con TRENTANOVE m o r t i in campo? la juve che proprio oggi non fa nulla a riguardo striscione di 50 metri che nel derby del 2012 campeggia nella curva dello juventus stadium inneggianndo e ridicolizzando la tragedia di superga del grande torino. che ci siano ultras come belve feroci e senza cervello ovunque è un fatto, che una società continui ad accettare, a suo comodo e buon tornaconto, diciamo anche questo chiaro perchè non è stato detto, queste cose è ben altro fatto. sarebbe questo il famoso stile juve? ebbene sì, è proprio questo. e tanti altri fatti lo confermano. io avrei il voltastomaco a tifare per una squadra la cui morte di DECINE di altri miei compagni è stata così vergonosamente ignorata, maltrattata, per non dire di peggio.

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    1. El_Pinta

      Purtroppo la dirigenza della Juventus, in questi anni, ha concesso ai suoi Ultras fin troppa indulgenza e per motivi di “quieto vivere”. È lo stesso motivo per cui hanno cavalcato la questione della terza stella con tanta insistenza, compattare intorno alla dirigenza una tifoseria delusa e arrabbiata. Purtroppo di queste scelte improvvide lo Juventus Stadium pagherà le conseguenze spesso, negli anni a venire

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      1. tonino gallo

        io la partita la vidi a casa di mia nonna. ero piccolo. sotto i miei occhi scorrevano quelle immagini assurde e non mi rendevo conto nbene di cosa stesse succedendo. condivido gran parte delle considerazioni dell’autore. appena un po’ più grande e con qualche informazione in più, oltre ad una coscienza di ometto un po’ più maturo, ho sempre ritenuto ingiusto sia il fatto che la partita venisse disputata sia che il trofea sia stato ritirato, ed in quel modo poi. per me la coppa vinta dalla mia squadra è solo una. quella non conta. oppure conta in quel universo calcistico del quale io mi ritengo un osservatore appassionato ma estraneo, per quanto contraddittoria possa essere questa mia affermazione.
        detto ciò vorrei aggiungere che non mi è mai andato giù che un pinco pallino qualunque desse giudizi etici e morali sulla mia “juventinità”.
        gli striscioni su questi o quei morti si vedono in parecchi stadi italiani. non certo solo allo stadium.
        spesso si vedono striscioni o si sentono cori inneggianti la morte di Scirea.
        ancora più spesso striscioni sul fallito suicidio di Pessotto.
        in alcuni stadi ialiani si accoltella quasi settimanalmente, senza fare nomi l’olimpico di roma.
        poi arriva pinco pallino e mi fa la lezione di morale.
        il voltastomaco mi viene ogni giorno osservando la realtà che mi circonda e se me lo devo far venire per il calcio me lo facciom venire per il mondo del calcio tutto.
        di paladini del calcio pulito ed onesto ne ho piene le palle fin da piccolo.
        di gente che considera Zemah un anarchico insurrezionalista e tutti gli altri brutti e cattivi idem.

  4. Giacomo

    Le notizie erano frammentarie, non si capiva se era morto un tifoso – aggiunge – oppure un centinaio. La Uefa ci aveva impedito di scendere in campo ma per fortuna un generale grande e grosso, con un po’ più sale in zucca, ci ha ordinato di giocare per evitare problemi più grandi: la curva juventina avrebbe voluto vendicarsi…”. Infine parla dei festeggiamenti: “Sento sempre ripetere le stesse cose… La nostra festa era stata decisa dallo stesso generale alto due metri: ci ha obbligati a uscire dallo spogliatoio e andare sotto la curva bianconera, perché dovevamo tenere i nostri tifosi all’interno dello stadio”.
    Stefano Tacconi.

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  5. Giacomo

    Da un pezzo di Italo Cucci, grande giornalista all’epoca del Guerino.
    BRUXELLES – 29 MAGGIO
    LA COPPA INSANGUINATA

    La strage dell’Heysel deve insegnare molto anche al calcio italiano.
    Le responsabilità degli inglesi, dell’UEFA, degli organizzatori e della polizia del Belgio.
    È giusta la punizione dei club inglesi innocenti? La Coppa deve restare a Torino: con l’impegno di rivincerla subito

    di Italo Cucci

    I GIORNI che passano sembrano allontanarci dal­la tragedia di Bruxelles, ma gli occhi e il cuore la trat­tengono, rifiutando d’accostarsi ancora al calcio, allo sport che ha rallegrato tanti anni della nostra vita.
    Il compiacimento tante volte esternato d’essere te­stimoni d’un mondo diver­so, negato alle quotidiane amarezze dell’esistenza, forse infantile perché lega­to a un gioco dato più agli innocenti entusiasmi che alle passioni bestiali, quella sorta d’orgoglio che ci ha nutrito negli anni s’è spen­to nell’allucinante serata dell’Heysel quando abbia­mo ritrovato orrori e lacri­me dimenticati e il senso d’inutilità del nostro so­gno. Non vi dirò — altri lo faranno — lo sgomento di quelle lunghe ore d’assedio in uno stadio in cui s’era aperta una voragine d’in­ferno; non mi dilungherò sulle visioni atroci offertesi ai miei occhi quando ho intuito che dalla massa ter­rificata del settore Z dove­va essersi librata la morte e sono andato a cercarla fra corpi smembrati e feriti, fra volti spentisi in una maschera di paura, fra le lacrime mute o disperate dei sopravvissuti che invo­cavano vita per gli amici o i parenti massacrati. Le ore trascorse da quella sera non hanno lenito il dolore ma attenuato l’ira e l’odio.

    HO ODIATO con tutte le mie forze l’orda selvaggia di Liverpool, quei lupi u- briachi che si sono gettati con furia sanguinaria sugli Agnelli indifesi del maledet­to settore Z, tutta gente tranquilla, estranea alle ben note risse del calcio, desi­derosa solo di vivere qual­che ora di svago. Ho odia­to l’imbelle, impotente e arrogante polizia belga che, incapace di prevedere il pericolo costituito dai «reds», s’è disfatta nel caos ai primi incidenti, ha volta­to vilmente le spalle agli «animals» scatenati, è ri­sultata pressoché nulla nell’opera di soccorso, ha esibito una grinta da ope­retta nel tentativo di ri­prendere il presidio del campo, ha dovuto chiedere infine ai calciatori della Juve e del Liverpool l’ag­ghiacciante esibizione del- l’Heysel per evitare una più grande carneficina. Voglio dire a chi non c’era e tutta­via ha straparlato, ha sen­tenziato, ha criticato scio­rinando accenti demagogi­ci e imbecilli: tacete, voi che non c’eravate, voi che non avete vissuto quelle ore di paura, voi che non potevate capire quale rab­bia omicida stesse montan­do fra le migliaia di italiani confinati nella curva juventina, gente che avrebbe certo spazzato via dall’Heysel, dai suoi dintorni, i «reds» vigliacchi, aggiun­gendo strage a strage. E invece, grazie a Platini e a Grobbelaar, a Cabrini e a Wark, a tutti quei ragazzi che sono scesi sul tappeto sconsacrato dell’Heysel, la paura s’è spenta, altre an­sie — magari incoscienti — si sono accese, e nuovi sorrisi — ancorché folli — sono tornati sui volti della gente. E alla fine, quasi per miracolo, come esorcizzati dallo stesso nostro odio, gli «animals» sono scomparsi. Mentre la Juve improvvi­sava un macabro trionfo essi venivano rigettati ver­so la Manica, verso una sicurezza che forse non me­ritavano e che comunque oggi ci fa sentire più sereni. Perché l’ira selvaggia ch’e­ra anche in noi, l’odio ch’e­ra pronto ad esplodere in gesti inconsulti hanno la­sciato il posto al ragiona­mento. Non alla rassegna­zione, ma all’umana com­postezza che vuole preghie­re per i morti e per i vivi, e respinge la vendetta anche se non è subito disposta al perdono.

    NOI VOGLIAMO so­prattutto capire, e quello che non possiamo cogliere dalla bestialità di quel branco di liverpudiani ubriachi dobbiamo cercarlo in noi stessi. Quelli sono criminali incalliti, triste­mente noti in Inghilterra e in Europa; noi siamo vitti­me non del tutto innocenti, colpevoli comunque di avere accettato il confronto con fanatici notori, illusi di poter chiudere una sfida con novanta minuti di gio­co. Le vittime innocenti sono soltanto quelle che da qualche giorno giacciono sotto terra dove le ha ac­compagnate lo strazio dei famigliari e degli amici. Noi abbiamo ancora qual­cosa da dire, qualche esa­me di coscienza da fare, qualche angolo dell’anima da ripulire dalle scorie la­sciate dalla lunga abitudi­ne alla violenza, dall’illusoria speranza in un calcio migliore, illusoria perché lo abbiamo veduto cresce­re nell’infamia di un tifo assurdo, volgare, demente, dato sempre più a una ritualità funesta, fatta di teschi e di insegne terribili, di slogan criminali, di in­vettive disumane, di ceri­monie al limite della follia, le stesse che fanno imbrat­tare i muri con frasi che recano scherno ai morti dell’Heysel ed esaltano og­gi Bruxelles contro quei fanatici juventini che ieri esaltavano Superga. Per questo, fermi in una calma mortale, vorremmo che al­l’improvviso sparissero dai nostri stadi le insegne di un tifo folle, paranoico; e non ci accontentiamo di so­gnarlo: lo pretendiamo da quei dirigenti che, negli an­ni, come apprendisti stre­goni, hanno lasciato che la follia si scatenasse fino a risultare impotenti al mo­mento di imbrigliarla, sog­giogarla. Lo pretendiamo dalla Federazione, dalla Lega, dalle società che, tut­te, oggi, devono adottare i morti di Bruxelles e render­gli omaggio mutando d’ac­chito la tendenza allo scon­tro fisico dei rispettivi tifo­si, riconducendoli al rispet­to se non all’amore per questo sport che sentiamo profondamente nostro non per l’agonismo o l’aspra rivalità che produce, ma per il senso di felicità che sapeva trasmettere insieme all’ammirazione e a quella sorta di innocente idolatria per i campioni che ci faceva essere tutti ragazzi anche se coi capelli imbiancati dal tempo.

    ESAMINANDO noi stessi, finiremo per essere utili anche agli altri, in particolare a quegli inglesi che oggi sono sopraffatti dalla vergogna e credono di poter curare il morbo che dilania la loro vita sportiva serrandosi in un angolo, negandosi l’Euro­pa e le antiche sfide che hanno fatto grande il cal­cio. Certo, comprendiamo lo spirito che ha partorito l’autopunizione della federcalcio inglese; ma non crediamo sia giusto gioire come di una vendetta subi­to ottenuta; temiamo anzi sia solo motivo di vanto per quelle decine o centi­naia di criminali di Liverpool che oggi possono an­dare fieri d’un altro risulta­to: sono riusciti a mettere in ginocchio la fiera Inghil­terra madre del football; se ben conosciamo quella gentaglia, oggi può menar vanto di avere vinto la sfida di Bruxelles perché nelle loro menti bacate tro­va più significato una stra­ge di «nemici» che un gol preso. Avere negato al cal­cio inglese il contatto con l’altra Europa è come aver assegnato a quei fanatici una medaglia. Il calcio, che si è dato leggi secondo le quali si è ben governato in circa un secolo di vita, attraverso queste leggi do­veva punire soltanto il Liverpool, oggettivamente responsabile dei suoi «ani- mais»; il ritiro del «passa­porto» all’Everton e agli altri club riporta indietro non solo tutta l’Europa calcistica ma anche quel grande paese sognato che doveva sorgere sull’abbat­timento dei confini e dei nazionalismi e crescere nell’idea partorita dalla pace conquistata nel 1945. Vedete quanto può portare lontano una partita di cal­cio: non per mero ideali­smo ma per amore di una sicura fratellanza fra i po­poli. Le lacrime dei ragazzi di Fagan nella cattedrale di Liverpool sono vere come quelle che noi abbiamo versato per le vittime dell’Heysel.

    L’Equipe – Le Football Assassine
    «UCCISO IL CALCIO:» questo il titolo de L’Equipe il giorno dopo la tragedia di Bruxelles. Il quotidiano sportivo francese trent’anni fa era stato l’ideatore della Coppa dei Campioni. L’amarezza e lo sdegno nel constatare la «distruzione» della propria creatura naturalmente oltre che quella di moltissime vite, sono stati grandi. «Sono da condannare», si diceva in un editoriale, «non solo gli autori dei misfatti dell’Heysel ma anche coloro che finora hanno tollerato manifestazioni di violenza negli stadi. Lo sport impiegherà molto tempo a rimettersi da una simile tragedia».
    MI SENTO anche di re­spingere — a mente fredda — il ruolo di giudice asse­gnatosi dall’UEFA. Se la mano omicida è stata quel­la degli «animals» di Liver­pool, la mente idiota che ha favorito il massacro è senza dubbio quella del­l’ente calcistico europeo af­fidatosi alla federazione belga senza pretendere il controllo della sua organizzazione, apparsa colpe­vole fin dalla lontana vigi­lia, quando ha saputo interpretare soltanto un ruo­lo burocratico, mancando d’intelligenza e di ogni for­ma di prudenza. Mentre il signor Millichip, presiden­te della federazione inglese, comunicava la dura deci­sione di ritirare le proprie squadre dalla competizioni europee, l’intero gruppo dirigente dell’UEFA dove­va dimettersi, imitato dalle autorità calcistiche e dai responsabili dell’ordine pubblico del Belgio. Tutti costoro — ripeto — sono più colpevoli della strage di Bruxelles di quanto lo sia il calcio inglese.

    IN ITALIA questo dove­va essere preteso, dai go­vernanti del calcio come da quelli del Palazzo; si è inve­ce preferito moraleggiare sul piccolo e stupido trion­fo improvvisato all’Heysel dai giocatori della Juve, sicuramente stravolti dalla terribile vicenda di cui era­no stati testimoni; o sulle ancora più stupide feste dei tifosi di casa nostra, che peraltro conosciamo da sempre e siamo pronti a strumentalizzare quando con caroselli o altre dimo­strazioni di fanatismo «ce­lebrano» le glorie patrie. In molte altre occasioni — lascio a ciascuno intendere quali — migliaia di italiani dimostrano immaturità e stupidità. Il calcio, ahinoi, ne ha allevati tanti, spesso con la complicità di quei potenti che dalla stupidità attingono forza. Piuttosto che rivolgersi ai veri colpe­voli della strage pretenden­do giustizia per i poveri morti di una triste giornata di maggio, si è preferito infierire sul trofeo ch’essi stessi erano andati a coglie­re nello stadio di Bruxelles. Resti pure, quella Coppa dei Campioni, tra i trofei della Juventus: certo non le darà nuova gloria o felici­tà, speriamo invece che le dia l’energia, la determinazione sportiva, di riconqui­starla fra un anno: solo una Coppa così, più vera, potrà essere dedicata al piccolo Andrea Casula e agli altri trentuno italiani che non sono più tornati dallo stadio di Bruxelles e sono stati portati sul fred­do marmo di un obitorio coperti di bandiere e di sciarpe bianconere. Oggi piangiamo per loro. Ma non rinneghiamo la passio­ne per il calcio e sogniamo il giorno in cui potremo tornare a sorridere.

    * * *

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  6. Giac

    1. la Juve non voleva giocare quella finale 1bis l’avvocato aveva ordinato il ritorno in patria dei bainconeri 2. si dovette giocare per motivi di ordine pubblico 3. Il liverpool non voleva giocare senza l’ufficializzazione della finale(ne ho parlato con Caremani) bis pensa in caso di vittoria Liverpool l’itaianomedio avrebbe detto 8 su 8, tant’é che in moltissime partite della Juve si inneggia a quella tragedia. 4. Platini e co. sbagliarono ad esultare ma vanno giustificati perché in completa trance agonistica e messi in mezzo ad una cosa più grande di loro(arrabiati e addolorati hanno sfogato tutto in quell’esultanza arrabiata, in giusta e di cui poi si sono pentiti. 4bis il giro di campo fu ordinato dalle autorità belghe per far fuoriscire i tifosi del Liverpool e tenere dentro quelli della Juve 5. Platini ha parlato dell’Heysel sia da pres. Uefa che in inverviste ed autobiografia. 6. leggi cosa ne pensa la madre di Giuseppina Conti, ragazzina 17enne perita in quel giorno infausto. 8 detto ciò bisogna ricordare sempre e per primi i 39 angeli bianconeri. 8bis quella coppa rimarrà a memoria di quella tragedia.

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  7. Giac

    Trenta anni senza Giusy. Aveva solo 17 anni, c’è scritto sulla tomba nel cimitero di Rigutino.
    Mamma Marisa parla con il Corriere di Arezzo nel giorno dell’anniversario dell’Heysel. “Partì la mattina alle 4, felicissima…” Andava a vedere la sua Juve giocare per la Coppa dei Campioni contro il Liverpool. Non toccatele la Juve, non toccatele la Coppa insanguinata. Marisa è una signora dolce, dolcissima, ma con la forza di un leone. Marisa è la mamma di Giusy, la ragazza con i pantaloni verdi morta all’Heysel insieme agli altri 38 martiri del massacro. “A soli 17 anni”, come ripete Marisa e come sta scritto sulla tomba nel cimitero di Rigutino, che sembra una cameretta, accogliente e luminosa. “Mamma, quando mi sposo mi fai una casa col cane lupo?…” chiedeva Giuseppina a Marisa in quella sua ultima primavera, sognando il futuro che poi non ha avuto. Era un fiore che sbocciava, un po’ ragazzina e un po’ donna. “Così io e mio marito – sospira Marisa mentre sistema i fiori – le abbiamo costruito questa…” Una cappella non triste, le spalle al monte Lignano, il cielo che sembra ad un dito di distanza, il marmo azzurro (“Il colore che preferiva”) sotto il quale Giusy riposa. Questo 29 maggio, tre decenni dopo, regala un sole che entra dentro e illumina fiori, piante, fotografie, oggetti. C’è un minuscolo peluche portatole da un ragazzo di Como diventato uomo, che lei non conosceva e che dal 1985 viene puntualmente a dire una preghiera qui. C’è luce anche negli occhi di Marisa, che hanno pianto, piangono, piangeranno. “E’ come fosse ieri…”, sospira ancora. “Cosa mi ha sorretto in questi trent’anni? La fede nel Signore”. Fede, forza, famiglia. E anche il calcio, quella Juventus che i Conti, Marisa in testa, amano in modo speciale. Quel giorno del 1985 Giuseppina era felicissima. “Partirono per Bruxelles alle 4 del mattino. Giusy, bravissima a scuola, aveva terminato i suoi impegni del quarto anno di Liceo Classico e si era meritata quel premio. ‘Mamma – mi disse – torno con la Coppa’. La sera quando in tv sentii dei disordini, del muro crollato allo stadio, ebbi subito il presentimento. Poi la notte seppi che lei e mio marito erano rimasti coinvolti, feriti. Una notte di tormento. La mattina dopo mi feci aiutare da una signora di Rigutino che parlava il francese e sentii per telefono Antonio, che era in ospedale. Gli chiesi: e la ‘citta’? Lui mi disse che la ‘citta’, la nostra Giusy, non ce l’aveva fatta…” Brividi. Trent’anni fa, come fosse ieri. Scodinzolano i gatti nella casa dei Conti. Quello di Giusy è vissuto 19 anni dopo la sua morte. Lei sorride nella foto appesa alla parete, l’ultima foto che le scattò il babbo prima di entrare nello stadio trappola: i pantaloni verdi, la bandiera come mantello.
    In questo 29 maggio babbo Antonio non c’è, è al Nord per seguire il Giro d’Italia. Lo sport è rimasto un compagno di viaggio. Terribili le immagini di quella sera, con lui sopra il corpo esanime della figlia. La calca se l’era portata via come un fiume in piena, spinto dalla follia degli hooligans. Non poté proteggerla, non riuscì a salvarla. Ti deve crollare l’anima dentro. Per i Conti, commercianti storici di Rigutino, sembrò crollare tutto. Anche Antonio ha saputo stringere i denti, ha saputo pedalare sui tornanti terribili della salita della vita. L’Heysel ha segnato e straziato questa famiglia, che però ha il suo angelo bianconero in cielo e vive di unità, valori, speranza. “Ogni anniversario è un giorno pesante” dice Marisa, ma il suo sguardo è positivo. Ci tiene molto, poi, a ringraziare don Virgilio, il parroco di Rigutino “che ci è stato tanto vicino e ci ha dato tanto sostegno”. Il cuore della casa è il soggiorno dove la famiglia Conti si raduna al completo davanti alla tv per tifare Juve. Dalle pareti sorride Giusy accanto a sciarpe bianconere e magliette. “Mi sono sempre opposta all’idea di chi voleva la restituzione di quel trofeo insanguinato, sarebbe stato un affronto a chi come la nostra Giusy era così felice ed è morta per quella coppa”. Dietro l’angolo, il 6 giugno, c’è un’altra finale di Coppa. “Chissà, forse i miei figli Giovanni e Francesco potrebbero andare a Berlino… Ne sarei felice”.

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