La storia comincia quando tutto finisce, o almeno quello che era stato per un po’ tutto e tardi scoprirai che non lo era affatto. Vittoria e sconfitta hanno senso se la vita è rappresentata come una successione di eventi atomici, finito uno via un altro, omettendo di guardare al flusso, dimenticando la cardinalità del continuo. Nella sequenza non discreta e non numerabile degli eventi, quando tutto – che non è tutto – finisce, esse compaiono, una vittoria e una sconfitta, a braccetto. Noi eravamo quelli dal lato amaro del braccetto.
Per alcuni minuti restammo immobili. La musica, le bandiere, il baccano. Poi lasciammo gli spalti con calma, tra i festeggiamenti degli Altri che ancora duravano. Demmo le spalle al campo, scendemmo le gradinate, passammo i tornelli, calcammo i marciapiede. Più aria, meno schiamazzo.
Camminavamo in silenzio verso l’ingresso della metro e il clamore che si faceva brusio. Passo dopo passo, le parole attorno sparivano, le bocche si facevano mute, il suono mutava progressivamente da voci precise a rumori indistinti di passi e di treni.
Attaccato al finestrino, il fuori che entra, De Chirico, Trainspotting, il dentro che si riflette, volti, gente, Daumier, diorami. Durante il viaggio verso l’aeroporto, per un attimo distolsi lo sguardo a cogliere gli occhi di tutti fissi sullo stesso piano sequenza notturno, che là fuori correva ininterrotto. E per non incrociare lo sguardo di nessuno vi tornai anch’io.
Lezione lunedì, finire quella roba prima della riunione di sabato, un regalo per l’anniversario dei miei, la cena da Giangi, le analisi la prossima settimana, il libro per Emanuela. Esistere. Più importante. Una partita che era tutto.