[Siamo lieti di presentarvi un racconto inedito di Fabrizio Gabrielli, maestro di Sforbiciate]
Dici che a Barranquilla si balla così, dimenando i fianchi e portando le mani alla melena. E tu, Marta, diomìo se sei bella: bella che ci sarebbe da farti santa subito, santa Marta.
Dalle spiagge del quartiere Pescaito, a Santa Marta, sulle coste caribègne della Colombia, una manciata di chilometri da Barranquilla, se non è una di quelle giornate umide di foschia si vede l’isolotto del Morro. Gli indigeni delle montagne lo considerano sacro; a me è sempre sembrato l’incantamento tricotico d’una sirena che s’immerge nell’Oceano, Marta.
Al Pescaito, tra caschi di banane e aroma di caffé tostato, i ragazzini han sempre giocato al calcio. C’è stato un tempo in cui Carlitos, quando gli arrivava la palla tra i piedi, la buttava via impaurito, in fallo laterale, anche se non c’era nessuno a pressarlo, spaventato come ci si spaventa di fronte a certi prodigi mulatti. Da quando il padre gli ha sberciato contro che solo i senzapàlle la buttan fuori, ha imparato l’arte dell’ammaestramento. C’è sempre il modo per uscire dalle situazioni palla al piede, gli ha insegnato paziente. Da quel giorno in poi, Carlitos alla sfera è come se cantasse una ninna nanna calypso: la sfiora col collo, con la pianta, e questa s’addormenta. Poi, quando i suoi avversari s’annoiano di marcarlo stretto, e sbuffano, il Pibe, ché lo chiaman tutti così, la passa filtrante all’amico d’attacco. Che la butta dentro.