[Riceviamo e pubblichiamo. Una serie di istantanee raccolte da Dario Falcini ci raccontano il genocidio del popolo armeno, ricordato a cento anni di distanza, e le rivalse che hanno attraversato anche il mondo del calcio]
di Dario Falcini
La più nota tra le litanie armene inizia con Abrahamyan e termina con Petrosyan. Tra l’uno e l’altro è fatto divieto di incepparsi, nonostante vari attentati alla logopedia e abuso di patronimici.
Un paese che più di altri non aveva bisogno di eroi, e ne scoprì undici senza nemmeno cercarli, in un giorno di primavera del 1973. Fino ad allora il campionato sovietico era stato un giocattolo delle squadre di Mosca, al più la competitiva Ucraina o la prolifica scuola georgiana potevano ambire allo sgambetto.
Nell’anno 55 della Rivoluzione dei Soviet la provincia più estrema, divenuta squadra sotto i colori dell’Ararat Yerevan, conquistò un incredibile scudetto: l’orgoglio di un popolo schiacciato dallo stivale della storia esplose.
La memoria corre al 24 aprile del 1915: i Giovani Turchi, convinti che la giusta dose di ferocia fosse il ricostituente del moribondo Impero Ottomano, diedero il via al massacro dei cittadini di etnia armena.
La stima dei morti è particolarmente incerta, varia dai 500 mila ai 2 milioni. Chi sopravvisse alle marce forzate attraverso il deserto siriano e alimentò una diaspora che ha seminato i discendenti di Noè nei cinque continenti.
Dopo un secolo la ferita non si è rimarginata: Ankara non ammette alcun genocidio e arruola nel “fronte del male” papa Francesco e chi non si adegua al negazionismo. Solo una ventina di paesi in giro per il pianeta accetta la definizione e parla apertamente di una strage su base etnica, gli Stati Uniti ancora non hanno compiuto questo passo.
Oggi i campioni superstiti hanno una settantina di anni e lo scorso 24 aprile la maggior parte di loro è stata a Yerevan per ricordare il sacrificio degli avi. Il sentiero che porta al memoriale del massacro, cima di una collina sopra Yerevan, è stato coperto di fiori rossi, il rintocco di cento campane ha fatto da spalla al concerto dei System of a Down. Sullo sfondo il monte Ararat, dove la tradizione biblica fece naufragare l’Arca di Noè, oggi in territorio turco.
La capitale armena risulta fuori mano per Levon Ishtoyan, bomber del ’73. Vive a Los Angeles, dove dirige una scuola calcio.
«La mia famiglia viene dalla città armena di Adana, oggi Turchia» – dice. «Nel 1915 mia mamma aveva sette mesi e nonno la nascose sotto un albero per salvarla dai soldati ottomani, se solo avesse pianto li avrebbero scoperti e uccisi. É un miracolo che io e i miei ex compagni siamo nati, a nostra volta siamo dei sopravvissuti di una delle più terribili tragedie del ventesimo secolo. Fu lo sterminio sistematico di un popolo e di una cultura, chi si salvò fu costretto a abbandonare la propria patria».
La diaspora degli armeni ha avuto effetti contraddittori, centrifughi e centripeti assieme, su cultura e tradizioni locali e disseminato un patrimonio umano impossibile da stimare. I nomi più noti vengono dalla musica, su tutti quelli di Cherilyn Sarkisian in arte Cher e Charles Aznavourian, ma anche con il pallone tra i piedi c’era chi se la cavava.
Una ricerca quasi psichiatrica sulle origini dei campioni di ieri e oggi ha dato vita a centri studi e decine di forum online in tutte le lingue. Qualche mese fa la rete si riempì di orgoglio per la convocazione ai Mondiali di Matteo Darmian. Il “falso amico” del pallone armeno è nato a Legnano nel 1989, ma di quelle terre ha solo le ultime tre lettere del cognome. Yan e Ian sono i suffissi caratteristici di quelle latitudini, indicano possesso da parte di padre, ma non possono essere utilizzati con il pilota automatico. Eppure persino la radio di stato armena si congratulò con il terzino di Torino per le performance amazzoniche.
Il patronimico, d’altra parte, non compariva nemmeno sulla schiena di Youri Djorkaeff, il più forte giocatore che vanti antenati dalle parti di Yerevan. Da lì proviene la madre mentre papà Jean, ex Marsiglia, è un calmucco nato oltre le Alpi. Ha vestito la maglia bleus anche Alain Boghossian, che ha assistito Blanc sulla panchina francese dopo aver vestito le tenute di Napoli, Sampdoria e Parma. Più volte l’ex centrocampista ha dichiarato sostegno alla causa armena, qualcuno lo dava persino vicino alla guida della nazionale. Il suo omonimo Joaquin, difensore ex Salisburgo, gioca al Cerro in Uruguay e porta la bandiera degli armeni nelle Americhe. Non sono pochi in Uruguay e in Argentina, terre di immigrazione: tra i professionisti del pallone fanno parte di quella schiera l’attuale allenatore della Grecia Sergio Markarian, ex Paraguay e Perù, e Efraín Chacurian, che nacque in Argentina e brilla nella Hall of Fame del soccer Usa. Nei paraggi di Buenos Aires, a Ingeniero Maschwitz, sgamba una squadra chiamata Deportivo Armenio. Ben più vicino ai suoi antenati vive Andranik Teymourian, primo capitano non musulmano nella storia dell’Iran: lui sì agli ultimi Mondiali c’era, con il suo retaggio eurasiatico. Terminata la Grande Guerra, dopo alcuni mesi di bombe e trattati coi vicini, iniziarono gli anni del socialismo. Prima l’Armenia fu inclusa nella Repubblica Transcaucasica assieme ai proletari georgiani e azeri, con cui i rapporti non erano entusiasmanti, poi ebbe una RSS tutta sua. L’identità locale, anche e soprattutto religiosa, trovò collocazione nella nuova sistemazione istituzionale, che donò a quelle terre industria e manifattura all’avanguardia e la possibilità di giocarsela sul rettangolo verde con le corazzate legate al Partito.
«Eravamo una piccola realtà periferica, nessuno credeva potessimo arrivare fino in fondo. Il trionfo nel campionato sovietico risale a 42 anni fa eppure è come se accadesse oggi, tipo un film che riguardi ogni giorno della tua vita» racconta Ishtoyan. Fu autore della doppietta che, nell’ottobre del 1973, consegnò all’Ararat anche la Coppa dell’URSS. Quel cimelio, che sarebbe poi stato rivinto dai biancoblu due anni dopo, era persino più prestigioso dello scudetto. Al minuto 89 gli armeni erano sotto 1 a 0 contro la Dinamo Kiev di Blokhin, che da lì a poco sarebbe stata inquadrata sotto gli ordini del collonnello Lobanovsky. Ishtoyan segnò all’ultima occasione disponibile e concesse il bis nei supplementari, poche settimane dopo nacque il suo primogenito.
Di lì a un anno avrebbe incrociato i tacchetti del Bayern di Beckenbauer, futuro trionfatore della Coppa Campioni. «Erano i quarti, tornammo a Yerevan sotto di due gol – racconta -. Negli spogliatoi Franz alzò l’indice e mimò 1 a 0 per noi, io sorrisi e agitai indice e medio. Aveva ragione lui».
Andreasyan, Zanazanyan, Margarov sono alcuni dei giocatori di quella squadra che, negli anni ’70, vestirono la casacca rossa con la scritta CCCP: l’URSS, che agli Europei del 1972 cedette solo alla Germania in finale, non lesinò sul blocco Ararat. A sua volta gli armeni erano fieri di indossare la maglia sovietica: dopo la pena di anni di dominio ottomano, spenti nel sangue di un genocidio, difficilmente sentirete un armeno parlare male dei russi.
«Un giorno andai a giocare in Turchia con la maglia dell’URSS» – dice Levon Ishtoyan. «Lo speaker annunciò le formazioni, quando lesse il mio nome lo stadio lo seppellì di fischi: il suffisso Yan mi consegnava inequivocabilmente ai nemici. Dopo 10 minuti segnai, quel giorno vincemmo 4 a 1». Il mondo era un altro, nel 2009, quando lo stesso copione si presentò davanti ai suoi epigoni. L’Armenia si arrese due volte alla Mezzaluna nelle qualificazioni a Sud Africa 2010, match per cui si scomodò la diplomazia internazionale.
La nuova nazionale era nata diciotto anni prima dallo smembramento sovietico assieme al paese, assolo decisivo di una storia iniziata con l’Fc Araks e le altre squadre della comunità sorte a Istanbul ai primi del ‘900. A oggi sono state oltre cento le partite ufficiali giocate dai ragazzi in rosso, blu e arancio, la prima delle quali risale al 14 ottobre del 1992 contro la Moldavia, un’altra repubblica neonata.
«Ricordo bene il giorno dell’esordio: ero emozionato e fiero, anche se il match finì 0 a 0. Fu un’esperienza speciale, prima avevo sempre e solo giocato per i club sovietici e ora rappresentavo il mio Paese sotto la bandiera nazionale. Negli anni ho sempre e solo pensato a difendere quello stemma che avevo sul petto, senza pensare alle difficoltà lungo il cammino».
A parlare così è Sargis Hovsepyan. É stato difensore, capitano e tuttora è recordman dell’Armenia con 131 presenze. Si è ritirato due anni fa e oggi allena l’Under 21 e il Pyunik di Yerevan.
Anche nel suo caso la storia ha la voce di una donna. «Le mie conoscenze derivano dai racconti di mia nonna» – spiega. «Gli anziani hanno i ricordi più chiari di un passato di dolore e sono riusciti a trasferire alla mia generazione la paura, la sofferenza di un popolo massacrato e messo in fuga. Quasi ogni sera, da piccolo, mi narrò aneddoti di quei giorni di cento anni fa: mi feriva, ma serviva a dare consapevolezza a una comunità che voleva rimanere in piedi».
Migliaia e migliaia di vicende umane riassunte nel profilo di Aras Ozbiliz. L’ala dello Spartak Mosca nacque a Istanbul nel 1990, una ventina di anni dopo avrebbe rifiutato una convocazione della nazionale turca per tenere fede all’etimologia del suo nome: “colui che conserva la propria identità”. Il suo bisnonno aveva vissuto per mesi in uno scantinato parlando da solo allo specchio per non dimenticare la sua lingua.
C’era Ozbiliz nell’ottobre 2013 al San Paolo, quando un pareggio condannò l’Italia alla seconda fascia del sorteggio per il Mondiale. La corsa verso il Brasile rappresenta il momento più brillante della storia della nazionale armena, culminato in un clamoroso 0-4 ottenuto a Copenaghen contro la Danimarca. Henrikh Mkhitaryan e gli altri atleti di quella selezione, che ebbero la meglio anche su Repubblica Ceca e Bulgaria, furono accolti come eroi al ritorno a Yerevan, nonostante un quarto posto nel girone che non somigliava lontanamente a un biglietto per Rio.
Oggi i progressi della squadra paiono essersi interrotti: dopo una sanguinosa sconfitta contro l’Albania maturata nell’ultimo quarto d’ora il CT svizzero Bernard Challandes si è dimesso, la qualificazioni a Francia 2016 è un miraggio.
«La squadra ha appena venti anni di storia. Siamo stati costretti a ripartire da zero, in molti casi è stato necessario costruire gli stadi e avviare le accademie per i giovani. Negli anni ’90 scarseggiava il materiale umano su cui lavorare, di recente vedo all’opera una generazione di calciatori talentuosi e affamati di vittorie. Abbiamo potenziale, necessitiamo di stabilità e bel gioco».
La vede così Vardan Minasyan, classe 1974. Era un centrocampista di ordine, pochi mesi fa ha concluso un quinquennio alla guida della nazionale armena. Per lui «patriottismo non è mai stata una parola vuota». Anche Minasyan sperimentò prima l’ingresso in campo con la t-shirt sovietica, per poi esordire con i colori del suo Paese.
«Durante la carriera, prima come giocatore e poi in panchina, ho sempre chiesto ai miei ragazzi di non giocare solo per se stessi, ma per tutta la comunità. Ricordo ancora la mia prima volta in nazionale, durante un’amichevole con il Paraguay nel 1996. Giocai tante altre partite internazionali, ma è impossibile scordare quelle emozioni».
Parole che acquistano significato, ancora una volta, nelle biografie. Sono le vite delle persone e i manuali di storia, quelli onesti e ben fatti, a dare legittimità all’eccesso di retorica.
«In Armenia i bambini scoprono presto cosa fu il Genocidio» – prosegue. «Ogni anno il 24 aprile genitori e figli camminano fino alla cima del memoriale della strage e depositano fiori in memoria delle vittime innocenti. Tutti in Armenia hanno coscienza di quanto accaduto ai nostri antenati, il loro sacrificio scorre nel nostro sangue».
Oggi l’Ararat Yerevan, che dagli eroi del ’73 ha ereditato simbologia e bacheca, è caduto in disgrazia e occupa l’ottavo posto di una lega di altrettante franchigie. Oggi il leone è impersonificato da Pyunik, i ragazzi di mister Hovsepyan che veleggiano verso l’undicesimo negli ultimi quattordici anni. Il torneo non è esaltante: quelli che hanno i numeri sono già oltre confine da un pezzo, nel continente le squadre armene non vanno mai al di là del secondo turno preliminare di Europa League.
«Dagli Stati Uniti ho festeggiato l’indipendenza armena» – conclude Levon Ishtoyan. «Per quanto riguarda il calcio, invece, molto c’è ancora da lavorare: il nostro torneo oggi non è all’altezza, inutile negarlo. Per fare il salto di qualità serve la competizione, che migliora le prestazioni di tutti, accompagnata da esperienza».
Vivo e sorridente, tre generazioni dopo un olocausto che troppi vorrebbero dimenticare, il popolo armeno attende con pazienza la ragione della storia e il pallone giusto da spingere in rete.
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Dario Falcini è giornalista, conduce la trasmissione Olio di Canfora su Radio Popolare, scrive sul Fatto Quotidiano, Gazzetta dello Sport e Wired.
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Articolo fantastico complimenti
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