[Riceviamo e pubblichiamo. Le distanze culturali tra Italia e Brasile sono analizzate da Paolo Demuru nel libro “Essere in Gioco. Calcio e cultura tra Brasile e Italia”, Bononia University Press. Nell’introduzione al testo è raccontato come, nel corso del tempo, i luoghi comuni associati ai caratteri culturali dei due popoli siano stati individuati anche da intellettuali di riferimento]
Dall’introduzione a Essere in Gioco. Calcio e cultura tra Brasile e Italia
di Paolo Demuru
1. Brasile vs Italia
È il 21 giugno 1970. Allo stadio Azteca di Città del Messico si è appena conclusa la finale della nona edizione dei campionati del mondo di calcio. Il Brasile di Pelé e Tostão si è imposto sull’Italia di Gigi Riva con il risultato di 4 a 1. Per i giornali di mezzo mondo è l’ennesimo trionfo del futebol arte, del calcio ballato, del calcio-carnevale, allegro e irriverente, tipico del modo d’essere e di fare dei brasiliani. Perché si sa, in fondo loro sono così: la danza, il carnevale, l’allegria ce li hanno nel sangue.
Madrid, 11 luglio 1982. Stadio Santiago Bernabeu. L’Italia di Paolo Rossi conquista il suo terzo titolo mondiale battendo la Germania Ovest per 3 a 1. Ancora una volta, si dice su e giù per la penisola, è l’astuzia italica ad aver avuto la meglio sulla potenza tedesca. E a pensarci bene non poteva che andare così. Del resto, nel calcio come nella vita, se c’è una cosa che gli italiani conoscono bene è l’arte di arrangiarsi, i trucchi per cavarsela in situazioni sfavorevoli o di fronte a nemici in apparenza insormontabili.
Che ci si creda o meno, che si sia o no appassionati di calcio, una cosa è certa: tesi e teorie come quelle appena descritte sono ormai entrate a far parte del senso comune, del groviglio di aneddoti e chiacchiere in cui, volenti o nolenti, ci ritroviamo quotidianamente incastrati. Le si legge sulle pagine di riviste e giornali, sui blog e sui profili dei social network, le si ascolta in televisione e ai tavolini del bar sotto casa. Per gli opinionisti di professione o per gli esegeti del lunedì, il ritornello è lo stesso: in Brasile e in Italia, il modo in cui si gioca a pallone condensa e riflette il carattere nazionale. Due filosofie calcistiche e esistenziali che in queste narrazioni si collocano molto spesso agli antipodi, non senza, tuttavia, condividere alcuni aspetti comuni.
Come abbiamo accennato in apertura, se lo stile brasiliano è costantemente associato a un’innata predisposizione alla danza, al buonumore, al piacere ludico per il gioco fine a sé stesso, al gusto lezioso dell’arte per l’arte, quello italiano è la manifestazione concreta di un’estetica del senza fronzoli e dritti al punto, l’emblema di un’atavica saggezza pratica, il segno nitido della capacità di ottenere sempre qualcosa di buono dalle intemperie degli eventi o dalle rovine della storia.
Ma al di sotto di questo velo di opposizioni, le storie sul calcio in Italia e Brasile celano anche qualche sottile analogia. Stando a quanto si racconta, ad esempio, l’abilità nel riuscire a spuntarla in circostanze avverse non è una prerogativa unica degli italiani. Al contrario, pare che anche ai tropici ne conoscano bene i segreti. La chiamano il jeitinho, o anche arte da malandragem, un talento naturale nel risolvere in maniera originale imprevisti, problemi o controversie, nell’aggirare le difficoltà della vita, la rigidità della burocrazia e dei codici sociali, e di cui, neanche a dirlo, i dribbling di Neymar e Ronaldinho sono la perfetta incarnazione. A differenza dell’arrangiarsi, la malandragem brasiliana è però un’arte più istintiva e spontanea, meno calcolata e più spettacolare, per cui non conta esclusivamente il risultato, ma anche la bellezza dei mezzi e delle forme con cui ci si ripromette di raggiungerlo. In campo e fuori dal campo.
Come queste convinzioni si sono sedimentate nell’immaginario popolare di Brasile e Italia è ciò che questo libro si propone di spiegare. Per farlo dovremo scavare in profondità nella storia culturale dei due paesi e ricostruire le forme in cui i due stili sono stati raccontati, facendo dialogare i discorsi sul calcio con quelli sull’identità italiana e brasiliana. Il viaggio sarà rivelatore. Passo dopo passo, ci accorgeremo non solo di come le storie sull’italianità e la brasilianità possano essere usate come lente per comprendere e interpretare determinati modi di giocare, ma anche, viceversa, di quanto questi ultimi siano stati decisivi per la costruzione e il tramandarsi delle storie sull’italianità e la brasilianità. Per la formazione, insomma, di due precisi modelli di cultura nazionale che ancora oggi resistono e si perpetuano.
Le analogie e i contrasti tra l’uno e l’altro sono di provenienza antica e natura profonda. Senza svelare troppo le carte e rimandando le sorprese alle pagine seguenti, ci limiteremo qui a dire che mentre il modello calcistico-culturale brasiliano si è costruito attorno al corpo, all’intuizione sensibile e all’improvvisazione estetizzante, quello italiano ha trovato invece fondamento sul calcolo e sulla ragione, sulla comparazione preventiva delle forze proprie e altrui, sull’arrangiarsi inteso in quanto arte concreta e pragmatica.
Si dice che gli stereotipi abbiano tutti un fondo di verità. Poco importa. Ben più interessante, crediamo, è capire come le verità si costruiscono storicamente in quanto tali. Lo faremo con l’aiuto della semiotica. Però una cosa la possiamo dire: non sempre in Brasile e in Italia la si pensava nei termini che abbiamo più sopra abbozzato. Né, d’altra parte, certi modi di giocare a calcio hanno necessariamente a che vedere con doti ipoteticamente innate o presunti DNA culturali. Ma questo ci sarà tempo e modo di scoprirlo.
2. Futebol arte: il modo di essere brasiliano
Sin dalla fine degli anni Trenta del Novecento, lo stile brasiliano di giocare a calcio è stato posto al centro di un vortice discorsivo che ne ha segnato le sorti e fatto la fortuna. Giornali, pubblicità, romanzi, persino saggi di scienze umane e sociali hanno contribuito a esaltare le doti dei calciatori brasiliani: la loro creatività, il genio individuale, la duttilità e l’elasticità del corpo, la loro maniera danzante di destreggiarsi col pallone.
Si pensi ad esempio a un noto articolo di Pier Paolo Pasolini, pubblicato sul quotidiano Il Giorno nel gennaio del 1971: Il calcio è un linguaggio con i suoi poeti e prosatori. Distinguendo, da un lato, uno stile tipicamente italiano-europeo, basato sul gioco collettivo e organizzato e sull’esecuzione schematica di un codice prestabilito e, dall’altro, una maniera specificatamente brasiliana, fondata invece sul dribbling e sul momento individualistico, lo scrittore faceva assurgere il primo al rango di prosa e il secondo a quello di poesia.
Gilberto Freyre1, tra i più noti e influenti intellettuali brasiliani del ventesimo secolo, non la pensava diversamente. Dribbling, depistaggi e ricami con il pallone erano ciò che differenziava radicalmente il modo di intendere e praticare il football dei brasiliani da quello degli europei.
Alla predilezione per il dribbling e l’azione individuale si aggiunge, a sancire la diversità del calcio tropicale, un altro tratto distintivo: il rifiuto del gioco duro e della forza fisica. Come ha scritto in diverse occasioni l’antropologo Roberto DaMatta, lo stile europeo, in cui dominano i muscoli e si lascia poco spazio all’improvvisazione, è del tutto opposto a quello brasiliano, fondato invece sull’uso dolce, agile e leggero del corpo (cfr. DaMatta, 1982, p. 28).
Ma non è tutto. Al di là degli aspetti tecnici e propriamente calcistici che abbiamo appena evidenziato, i discorsi sulla maniera brasiliana ci dicono anche qualcos’altro. Qualcosa che va ben oltre il calcio.
Ora, c’è un’espressione che si usa spesso in Brasile per identificare lo stile di gioco nazionale e che, a sua volta, sintetizza in modo esemplare cosa e quanto esso significhi per i brasiliani: futebol arte. Una sua recente definizione potrà farci capire con cosa abbiamo effettivamente a che fare:
L’espressione futebol arte è un’espressione brasiliana. È un’espressione unica e dal significato specifico. Identifica la cultura brasiliana, il nostro modo di essere, la nostra maniera di vedere il mondo […] la nostra diversità e la nostra consacrata identità.
La frase è tratta dal testo di presentazione dell’esposizione Os Onze – Futebol e Arte – África 2010xBrasil 2014 (Gli undici – Calcio e Arte – Africa 2010xBrasile 2014), ospitata nelle sale del MUBE (Museo Brasiliano della Scultura) durante l’intero periodo di svolgimento dei mondiali di calcio disputatisi in Sudafrica nel 2010. Nessun riferimento a dribbling o passaggi ispirati, alla destrezza e all’abilità nel dominio del pallone. Il significato unico e specifico dell’epiteto futebol arte circoscrive piuttosto la cultura brasiliana, il modo di essere dei brasiliani, la loro consacrata identità.
Di fronte a una simile proiezione, è più che legittimo porsi alcune domande. Come e perché, ad esempio, uno stile calcistico è giunto a esprimere la diversità e la specificità della cultura brasiliana? Il senso di appartenenza a un popolo e a una nazione? In cosa li rappresenta? Quali le qualità e gli attributi del carattere nazionale che incarna o dovrebbe incarnare? Ancora: esiste davvero uno stile propriamente brasiliano di giocare a calcio? E se sì, da dove nasce e come si forma?
Nei capitoli seguenti proveremo a dare una risposta a questi interrogativi. Per assolvere a tale compito in maniera esaustiva sarà necessario:
1. per quanto concerne il problema della formazione dello stile, prendere in esame il modo in cui il calcio era praticato in Brasile durante i primi decenni del secolo scorso. A tal proposito, le testimonianze e i documenti analizzati ci dicono che in effetti, come tendono a sottolineare Pasolini, Freyre e DaMatta, il calcio brasiliano si caratterizza sin dai suoi albori: (a) per uno stile di gioco più individualistico e (b) per la stigmatizzazione e il rifiuto del contatto fisico con l’avversario, che tende ad essere evitato e sanzionato anche laddove sarebbe di norma consentito. Tuttavia, se per i narratori del futebol arte tali peculiarità, vedremo, sono da ricondurre al genio creativo e alla naturale inclinazione per il ballo del popolo brasiliano, quel che l’analisi dimostra è che esse emergono e si sedimentano per ragioni ben diverse, che poco hanno a che vedere con il tramandarsi di un presunto patrimonio genetico nazionale. In particolare la tendenza verso l’elusione del contatto fisico. Considerata al contempo uno dei più grandi pregi e difetti del calcio brasiliano, essa si sedimenta per due precisi motivi. In primo luogo perché i ricchi calciatori che introdussero il pallone in Brasile – i cosiddetti sportmen, bianchi di origine europea che, sino all’avvento del professionismo, nel 1933, fecero del calcio un segno di distinzione sociale – avevano valorizzato negativamente l’uso del corpo e del gioco eccessivamente duro, considerato inadeguato ai valori aristocratici del loro entourage. In secondo luogo perché il processo di massificazione dello sport, culminato nella regolamentazione del regime professionistico, ebbe come prima conseguenza l’ingresso sulla scena calcistica degli afrobrasiliani, soggetti relegati a quei tempi alla periferia del sistema culturale brasiliano e che, fuori o dentro i campi, si riteneva fosse meglio evitare;
2. per quel che riguarda invece la questione dei percorsi attraverso cui lo stile si è trasformato nell’epitome della cultura brasiliana e quella degli attributi del carattere nazionale che dovrebbe condensare, dovremo invece ricomporre l’intreccio di storie che, a partire dagli anni Trenta del secolo scorso, hanno legato il calcio al modo d’essere brasiliano, per riprendere la definizione del MUBE. Come vedremo, al centro di queste architetture narrative si colloca proprio quel soggetto afrobrasiliano che prima si tendeva a marginalizzare. In particolare, il corpo afrobrasiliano. Considerato tra fine Ottocento e inizio Novecento un simbolo della degenerazione fisica e morale del paese, il corpo nero e meticcio si trasforma gradualmente in un emblema della brasilianità. L’elasticità e la sinuosità, riconosciute come qualità tipiche dei calciatori di colore, divengono metafore di un modo preciso di vedere e affrontare la vita, del jeitinho e della malandragem di cui parlavamo in precedenza, della capacità, cioè, di dribblare i problemi e inventare soluzioni con allegria, energia, passione e creatività.
Oltre a proporre alcune ipotesi sul perché si sia consolidato in Brasile uno stile calcistico più agile e individualistico, avremo qui modo di scoprire come il calcio si configurò inizialmente come una piattaforma per l’affermazione della supremazia dei bianchi sui neri e sui meticci, rappresentando valori opposti a quelli più sopra riportati. Nel terzo capitolo (Pelé, il Nero. Parabola di una conversione nazionale) vedremo, infine, come la narrazione su uno dei più noti calciatori di sempre, Pelé, abbia riscritto la storia del Novecento tropicale, rivalorizzando il ruolo degli afrobrasiliani nella definizione di un’identità “genuinamente” brasiliana e convertendo la nazione al credo del meticciato.
Obiettivo di questa organizzazione è dar vita a una riflessione circolare in cui il calcio giocato e il calcio raccontato convivano perennemente sullo stesso piano. Lungi dal volere distinguere e contrapporre, da una parte, lo stile e, dall’altra, i discorsi sullo stile, questo lavoro tenderà piuttosto a evidenziarne l’assoluta compenetrazione e la totale interdipendenza. A differenza dell’approccio storico, che si propone la ricerca di una verità “al di qua” dei racconti2, il principio della non separazione tra “realtà” e “narrazione” è per noi un presupposto imprescindibile, non solo dal punto di vista epistemologico, ma anche sotto il profilo euristico – per comprendere, ovvero, come il futebol arte sia nato e cresciuto.
3. Giocare e vivere all’italiana
Il giorno seguente alla conquista del mondiale spagnolo del 1982 da parte della nazionale guidata da Enzo Bearzot, Gianni Brera, tra i più importanti e pungenti giornalisti sportivi dell’intero Novecento italiano, celebrava così su La Repubblica le gesta della squadra: “ora tu, cara vecchia smandrippata Italia, hai sfruttato appieno le virtù della tua indole, dunque della tua cultura specifica. Io triumphe avventurata Italia” (in Brera, 2007, p. 338).
Che significa? Cosa vuol dire giocare a pallone – vincere persino una coppa del mondo – sfruttando le doti della propria indole? I pregi della propria specificità culturale? E quale sarebbe il gioco che le esprime?
Sulla relazione tra identità calcistica e identità italiana Brera non ha dubbi: gli “italianuzzi”, come egli stesso amava definirli, non possono cedere a velleità artistiche. Né tantomeno pensare di sfidare i loro avversari sul piano atletico. Gente malnutrita da generazioni e, peggio ancora, senza un assetto etnico definito, l’unico gioco che questi “mezzo alpini e mezzo mediterranei” (in Brera, 2008a, p. 22) possono permettersi è il gioco di rimessa: chiudersi in difesa e provare a colpire il nemico in contropiede. In quale altra maniera si può pensare di battere i grossi e (interamente) nordici tedeschi?
Primo: non prenderle. Secondo: sorprendere. Sono queste le linee guida del modulo difensivista che ha reso nota l’Italia nel mondo, e il cui nome si deve proprio a Gianni Brera: il catenaccio. Non solo uno schema, ma una vera e propria attitudine mentale. Si lascia giocare l’avversario, lo si attende nella propria metà campo proteggendo arcignamente la porta e infine, quand’egli meno se lo aspetta, si sferra il contrattacco decisivo. Una teoria del contro-gioco, una scienza dell’imboscata opposta allo stile brasiliano stereotipico, fondato sull’attacco costante e sulla creatività dei singoli.
A interessarci non saranno tuttavia le coordinate tecniche e tattiche del catenaccio, quanto piuttosto i presupposti antropologici su cui si fonda e i modelli di cultura che ha contribuito a cristallizzare. Dietro i racconti che ne descrivono le ragioni e l’efficacia si cela infatti un edificio teorico complesso. In esso si incastrano dottrine razziali e visioni storiche, stereotipi sociali e filosofie di vita.
Come afferma Brera, se è vero che calcio e cultura sono intimamente legati, sono due i motivi per cui gli italiani non possono e non devono intestardirsi nel giocare allo scoperto. In primo luogo, perché essi devono essere coscienti della propria condizione di inferiorità etnica. In secondo luogo, perché né il campo né il pallone ammettono menzogne o mimetismi. A calcio non si gioca seguendo mode o tendenze. Né per soddisfare brame di bellezza. A calcio si gioca come si è. Sfruttando le virtù della propria indole e i pregi della propria specificità culturale. Che nel caso dell’Italia significa una cosa: giocare d’astuzia. È questo l’attributo che per Brera distingue più di ogni altro la struttura profonda dell’italianità. Il gioco di straforo. La furbizia. La scaltrezza del trickster di fronte al gigante imponente. L’essere Ulisse contro Polifemo, Davide al cospetto di Golia. L’arte di arrangiarsi e riuscire sempre, in un modo o nell’altro, a cavarsela. Qualità che, come abbiamo anticipato, ritroveremo anche nei discorsi sullo stile calcistico-culturale brasiliano. Con le dovute differenze, tuttavia. Se l’astuzia tropicale è mossa dall’istinto, della sensibilità e dalla ricerca del bello, quella italiana è invece guidata dall’intelletto, dalla ragione e dalla logica del risultato utile. E come direbbe Brera: al diavolo l’estetica.
Brera non è però il primo a insistere sull’intelligenza “tipicamente italiana” dei calciatori azzurri. Non molti anni prima, furono le cronache sportive del ventennio fascista a tessere le lodi del gioco acuto e sagace attraverso cui l’Italia riuscì a conquistare i due titoli mondiali del 1934 e del 1938. Astuzia che, tuttavia, non è per questi autori l’unica qualità di cui essa dispone. Differentemente dal discorso breriano, le narrazioni degli anni Trenta tendono ad assegnare alla nazionale un ventaglio sterminato di talenti. Gli italiani sono e possono essere tutto e di più. Eleganti contro gli inglesi, passionali contro i norvegesi, brillantemente razionali e concreti contro i brasiliani. E che non ci si azzardi a menzionare deficienze di ogni sorta. Come si può essere inferiori se si ha sempre qualcosa in più degli altri?
Di tali corrispondenze e sovrapposizioni discuteremo nel libro. Come vedremo, se alcuni tratti considerati e rappresentati in quanto distintivi dello stile e dell’identità nazionale migreranno e si conserveranno quasi intatti dal fascismo a Brera, altri si perderanno o verranno persino capovolti. È quel che succederà, ad esempio, con i discorsi sulle qualità della presunta e cosiddetta “razza italica”: mentre Brera ne metterà in mostra le lacune, i cronisti del Ventennio, non senza paradossi e schizofrenie, ne esalteranno invece il vigore. E questo è un aspetto che non ci si può permettere di trascurare: i giochi, in fondo, sono sempre e pur sempre giochi di potere.
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Note al testo
[1] Sociologo, scrittore, poeta e politico. Nato a Recife, nello stato di Pernambuco, il 15 marzo del 1900. Studiò alla Columbia University, dove fu allievo di Franz Boas. Il suo Casa Grande e Senzala, pubblicato in Brasile nel 1933 e tradotto in Italia da Einaudi nel 1972 con il titolo Case e catapecchie, la decadenza del patriarcato rurale brasiliano e lo sviluppo della famiglia urbana, è considerato uno dei testi cardine per la formazione del Brasile contemporaneo. Come vedremo, il calcio fu per Freyre uno dei più felici esiti del meticciato brasiliano. I suoi scritti sullo stile calcistico nazionale furono centrali per la diffusione dello stereotipo del Brasile allegro, danzante, creativo e spontaneo.
[2] In Brasile esiste un dibattito sulla veridicità di alcune storie del calcio brasiliano, sia di natura giornalistica, sia di matrice accademica. Si vedano in particolare Soares (2001) e Helal e Gordon Junior (1999).
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Paolo Demuru ha conseguito il Dottorato in Semiotica in co-tutela tra l’Università di Bologna e la Universidade de São Paulo. Svolge attualmente attività di ricerca presso il Centro de Pesquisas Sociossemióticas della Pontifícia Universidade Católica di San Paolo.
Essere in gioco. Calcio e Cultura tra Brasile e Italia (2014, pp. 272) è pubblicato nella Collana Temi Semiotici da Bononia University Press.
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