[Qualche settimana fa Dario Falcini ha intervistato Ivo Herzog, figlio di Vladimir Herzog, giornalista assassinato nel 1975 in Brasile dalla polizia segreta della dittatura militare. Da deputato dello stato di San Paolo, José Maria Marin – ora alla guida della Federcalcio brasiliana e coordinatore dell’imminente mondiale – era parte del regime, e difese pubblicamente l’operato della polizia. L’audio dell’intervista è in calce.
C’entra questa storia con il pallone? E beh, intanto leggi…]
di Dario Falcini
La fotografia, la pesca, l’astronomia e i cavalli.
Nemmeno dieci anni assieme e Vladimir Herzog era riuscito a trasmettere al piccolo Ivo le grandi passioni di una vita. In una cosa però, da padre, aveva fallito: suo figlio del Palmeiras non voleva saperne. I suoi occhi si accendevano per il bianco e il nero Timao. Poi arrivarono gli anni ’80 e il Dottore con la sua democrazia fecero il resto: lui sarebbe stato per sempre del Corinthians.
Cinquanta anni fa, il 31 marzo del 1964. Vlado vide i carri armati attraversare Rio de Janeiro e rivisse i suoi primi anni, quelli della fuga. Viveva a Osijek nella Croazia jugoslava e il nazismo era ormai troppo vicino a lui e alla sua famiglia ebraica. Vent’anni dopo a San Paolo un nuovo regime entrava nella sua vita. Questa volta erano i generali di Castelo Branco che senza sbraitare troppo archiviavano il governo di Joao Goulart. Il copione sarebbe stato abusato negli anni: il paese fiaccato dalla stagnazione economica, il boicottaggio delle lobby, le manovre della CIA, la perversione per l’uomo forte. In Brasile aveva inizio la dittatura più longeva dell’America Latina. 21 anni e 5 governi militari cambiarono per sempre la storia del paese.
Il futebol divenne strumento di propaganda e fu usato per coprire torture e ingiustizie sociali. Erano gli anni d’oro della Seleção: la sbronza di una storica doppietta (Svezia 1958 e Cile 1962) era definitivamente smaltita nel 1970, quando le resistenze dei ragazzi di Valcareggi furono annientate da Pelé e Jairzinho. Il condottiero di quella nazionale era Mario Zagallo, che a pochi giorni dal volo per il Messico aveva preso il posto di Joao Saldanha.
Saldanha era anche un giornalista e si diceva che avesse simpatie comuniste. Le stesse informazioni che la polizia segreta possedeva su Vladimir Herzog. Nonostante l’allergia per la divisa Vlado fu nominato direttore di Tv Cultura, l’emittente pubblica di San Paolo. In quel ruolo, che interpretò nel modo più libero che gli era concesso, conobbe molta gente. Amici e meno. Sentì fare il suo nome dal deputato José Maria Marin. Quel fascista.
Era qualche giorno, ormai, che a San Paolo l’atmosfera si era fatta pesante. Vladimir ricevette una telefonata dal tono formale. Prima o poi doveva succedere. Alla cornetta lo invitavano a chiarire la sua posizione, ma poteva tranquillamente considerarsi in arresto.
Il 26 aprile del 1975 Herzog lasciò la redazione per pronunciare dei sissignore. Poche ore dopo Tv Cultura aveva bisogno di un nuovo direttore perché gli agenti avevano combinato un casino. Dovevano spaventarlo, pestarlo un po’ e invece lo ammazzarono. Succede. Non solo in Brasile, non solo in quegli anni.
Vladimir Herzog, però, era un personaggio noto e non poteva sparire nel nulla come tutti gli altri. I media furono mobilitati per raccontare il suo suicidio. Una foto in bianco e nero ritrae il giornalista con una corda al collo, sotto i piedi nemmeno l’aria per penzolare. Era impiccato alle sbarre di una finestra, le ginocchia che toccavano terra. Solo nel settembre 2012 fu ufficialmente riconosciuto che Vladimir Herzog era stato massacrato di botte e ucciso dentro quello scantinato.
«Quel giorno io avevo nove anni, mio fratello sette. Mamma ci disse della morte di papà il giorno dopo. Il 27 ottobre 1975 l’ospedale di San Paolo fu preso d’assedio da una folla di manifestanti. Protestavano per l’accaduto, volevano dare l’addio a mio padre. Furono momenti drammatici. Venne il giorno della sepoltura nel cimitero ebraico e ricordo che gli agenti del governo facevano tutto in fretta e furia. Nonna non trovava la strada e mia madre gridava ai poliziotti di non chiudere la bara perché una mamma aveva il diritto di vedere suo figlio per l’ultima volta».
È Ivo Herzog a parlare così. Oggi ha 48 anni, è un’ingegnere navale e vive ancora a San Paolo. Dirige l’istituto che porta il nome di suo padre.
«Ho più memorie di lui come papà che come giornalista,» dice, «ma con gli anni ho ricostruito la sua figura: era un cronista molto solidale con i problemi del suo popolo, era fermo nelle sue convinzioni. Diceva che il mestiere si fa per strada, nei quartieri. Era un perfezionista e pretendeva molto dalla sua squadra».
Ivo Herzog aveva 18 anni al tempo di Diretas Jà, in quel 1984 che segnò il faticoso inizio di una nuova epoca in Brasile. «Degli anni della dittatura ricordo soprattutto la scuola, il tentativo di convincerci che i militari erano buoni» racconta. «Ricordo il miracolo economico degli anni ’70, un boom costruito sui milioni di dollari americani piovuti qua per sostenere il regime e i business dei loro amici. E poi, più avanti, ricordo le folle in piazza che chiedevano giustizia e diritti».
Il Brasile non pianse i morti del mattatoio cileno di Pinochet, né dell’Argentina di Videla: oggi si stimano quasi 500 vittime della dittatura. L’attuale Presidenta Dilma Roussef fu arrestata agli inizi del 1970. Nel quartier generale paulista dell’Operação Bandeirante, dove il regime si occupava del lavoro sporco, fu torturata. Cinque anni dopo in quelle stanze si interruppero carriera e vita di Vlado Herzog.
«Papà non è stato ucciso per il suo lavoro: qui sta l’assurdità della situazione» spiega Ivo. «Era un intellettuale di sinistra, faceva parte di quelle migliaia di persone che lottavano per la libertà del Brasile. Credeva nella pace e nel progresso attraverso il dialogo. Negli anni ’70 il regime era diviso: c’era una parte che si sentiva pronta per una lenta transizione democratica e un’altra radicalmente contraria a ogni tipo di apertura. Mio padre, suo malgrado, si ritrovò in mezzo a questa guerra intestina».
Autunno 1975. Il deputato José Maria Marin prese la parola all’assemblea dello stato di San Paolo. È stato un mediocre centravanti del Tricolor Paulista tra il ’50 e il ’52, una ventina di presenze e una manciata di gol. La lingua non gli mancava e mirava a fare carriera in Arena, l’appendice parlamentare del regime. Tuonò contro il rischio di un complotto comunista. I rossi, disse Marin, minacciano la sicurezza nazionale e fomentano la rivolta attraverso i giornali e la TV pubblica. San Paolo doveva reagire. Lo fece in uno scantinato, pestando un po’ troppo forte sul volto meno compromesso del giornalismo cittadino.
«Marin lanciò il suo atto d’accusa appena poche settimane prima della morte di Vladimir» spiega Ivo Herzog. «Io non dico che José Maria Marin è un assassino, ma supportò un regime fascista. Le sue parole, la sua attività politica diedero legittimazione alle operazioni segrete che in quegli anni furono portate avanti: arresti e rapimenti, torture, uccisioni e sparizioni di oppositori. Nell’ottobre 1976 tornò in aula e tenne un altro discorso, ancora più significativo del precedente. Disse che la comunità di San Paolo doveva ringraziare Sérgio Paranhos Fleury. A un anno esatto dalla morte di mio padre dava dell’eroe all’uomo che lo aveva massacrato e ucciso».
Fleury è stato il capo della polizia segreta di San Paolo. Fu uno dei leader degli squadroni della morte incaricati di zittire ogni voce di dissenso, amministrava la violenza per conto del regime. A San Paolo gli hanno dedicato una strada e il suo nome è rimasto sulla targa fino al 2009, quando è stato rimosso per le proteste degli abitanti. Fleury morì affogato il primo maggio 1979 mentre era in mare col suo motoscafo. Le circostanze di quell’incidente non furono mai del tutto chiarite.
Migliore sorte ebbe il suo convinto sostenitore: a 82 anni José Maria Marin è presidente della Federcalcio brasiliana e guida il comitato organizzatore dei Mondiali al via fra poche settimane in Brasile.
«Abbiamo un capo della Coppa del Mondo che è a favore della violenza e che non sa cosa voglia dire vivere in democrazia». Marin non è mai stato chiamato a chiarire la sua posizione. Il Brasile è tornato alla normalità per piccoli passi e ha curato il suo senso di colpa con l’amnesia. Nel 1979 il congresso approvò un’amnistia che liberò i prigionieri politici e consentì agli esiliati di tornare in patria. Ma soprattutto ripulì i curriculum degli uomini del regime.
«L’amnistia brasiliana è un caso unico nel pianeta» prosegue il figlio di Vladimir Herzog. «Ora che sono passati 50 anni dal golpe è finalmente ammesso un dibattito su quegli anni e su quel provvedimento. Penso che sia fondamentale consegnare alla giustizia chi si è macchiato di gravi reati. Il Brasile oggi ha la polizia più violenta al mondo e questo perchè hanno sempre fatto quello che volevano. Tocca a noi interrompere questa tradizione di impunità».
Ivo Herzog ha incontrato solo una volta José Maria Marin. Fu in un’aula di tribunale e lui testimoniava al processo per diffamazione che il politico aveva chiesto e ottenuto contro Juca Kfouri, un giornalista brasiliano che da sempre accusa l’occupazione delle cariche di potere da parte di ex rappresentanti del regime fascista. L’ha guardato in faccia, ha dato la sua versione. Poi più nulla.
«Non ho mai avuto un dialogo con lui perché dice che sono falso e manipolo i fatti. Cosa gli direi se lo avessi davanti? Per prima cosa che deve lasciare l’incarico, anche perché è la prima volta che il presidente della Federcalcio è anche a capo del comitato organizzatore dei Mondiali. Poi gli proporrei, cosa che ho già fatto pubblicamente, di sedersi a un tavolo con alcuni giornalisti come testimoni e parlare di ciò che successe allora. Non può limitarsi a dire: non è vero, bugia. Lui dirà la sua verità, io la mia. In democrazia funziona così».
Ivo Herzog non è il solo a pensarla così. Una petizione intitolata “Fuori Marin” ne chiede le dimissioni, è stata lanciata un anno fa e ha già raccolto 55 mila firme. Tra queste c’è quella del mito del calcio brasiliano Romario. Ora è un deputato socialista e ritiene inaccettabile che il Brasile e il suo pallone siano rappresentati da persone come l’attuale capo della CBF.
«Abbiamo inviato la petizione alla Federcalcio, alle federazioni statali e alle principali squadre brasiliane» dice Ivo. «Volevamo essere certi che tutti coloro che hanno eletto Marin sapessero la storia di mio padre. Ho inviato il documento al comitato etico della Fifa che mi ha fatto sapere di non essere interessato. Credo sia molto grave: il calcio ha grande influenza sul popolo, calciatori e allenatori sono dei punti di riferimento per milioni di uomini e ragazzi. La politica non può voltarsi dall’altra parte, ignorare le istanze sociali. Altrimenti vuole dire che al calcio brasiliano non interessa la democrazia, ma solo il quieto vivere, i soldi e le copertine dei rotocalchi».
«La posizione della Fifa è ambigua» aggiunge. «Ha squalificato Simunic per un saluto fascista. È sicuramente un gesto da censurare, ma questo vale a maggior ragione per Marin. Perché non si pronunciano su di lui? Non hanno nulla da dire sul fatto che un fascista guidi la Coppa del Mondo? È come se un ex gerarca nazista prendesse decisioni sullo sport in Germania. Fra poche settimane inizierà il torneo e José Maria Marin riceverà i leader di mezzo mondo. Parliamo di personalità che, in molti casi, hanno combattuto per la libertà e la democrazia, che hanno pianto morti per colpa della dittatura. E ora stringeranno la mano a un fascista. È una vergogna, un disastro politico per il mio paese».
Il 12 giugno sarà un giorno speciale per la famiglia Herzog: nella loro San Paolo il Brasile affronterà la Croazia, il paese delle origini, quello della fuga dal nazismo. Ivo riuscirà a tifare per il suo paese? O vinceranno rabbia e dolore?
«Io amo il calcio» conclude il figlio di Vladimir Herzog. «Non sono mai stato allo stadio con papà, lui tifava Palmeiras e io sono del Corinthias. Penso che la Democrazia Corinthiana degli anni ’80 sia stata il più bel esempio di cosa possa essere questa disciplina: per la prima volta i calciatori hanno messo la faccia per difendere pubblicamente le loro idee e la libertà. Certo, tiferò Brasile ai Mondiali e sarò contento se vincerà. La cosa, però, mi crea conflitto. Quando lo sport eccita la gente, i problemi più grandi tendono a sparire dalle menti».
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Qui l’audio dell’intervista (doppiata in italiano):
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Dario Falcini è giornalista, conduce la trasmissione Olio di Canfora su Radio Popolare, scrive sul Fatto Quotidiano, Gazzetta dello Sport e Wired.
Su questo blog ha scritto anche “Carlos Caszely. Il re del metro quadro contro Augusto Pinochet”.
Puoi trovare Dario Falcini su Twitter.
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Infine su Democracia Corinthiana e argomenti affini:
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