[Riceviamo e pubblichiamo. Oggi 11 settembre ricorre il quarantesimo anniversario del Golpe cileno di Augusto Pinochet, evento che ha sconvolto non solo la storia del Cile, ma quella del mondo intero. Dario Falcini, giornalista di Radio Popolare, ha intervistato Carlos Caszely, calciatore della nazionale cilena che in quegli anni si oppose alla dittatura, uno dei cinque calciatori simbolo raccontati da Eric Cantona nel documentario “Les rebelles du foot”. L’audio dell’intervista segue in fondo all’articolo]
di Dario Falcini
Primo piano di una donna sulla sessantina. È seduta su un divano a fiori, indossa una camicia bianca e ha i capelli neri, tinti. Signora Olga Garrido, si legge nel sottopancia.
Inizia a parlare: «Sono stata sequestrata e picchiata brutalmente» – dice – «Le torture fisiche sono riuscita a cancellarle, quelle morali non posso dimenticarle. Per questo io voterò No».
L’inquadratura si allarga, sulla parete si vede un gagliardetto del Colo Colo, la squadra più titolata di Santiago del Cile. Nello schermo appare un uomo di un metro e settanta col volto rotondo, i capelloni ricci e i baffi neri: «Anche io voterò no» – dice con il sorriso – «Perché i suoi sentimenti sono i miei. Perché questa donna meravigliosa è mia madre».
[al minuto 3:40 di questo video la scena dello spot per il no al referendum sopra descritta]
È l’autunno del 1988 e la scena va in onda su una delle principali tv del Cile. Pochi giorni dopo milioni di cileni scelgono la democrazia. Dopo 15 anni un referendum popolare sancisce la fine del regime di Augusto Pinochet, uno dei più schifosi del Sud America.
Quell’uomo è Carlos Caszely. Nato a Santiago 63 anni fa, è uno dei più grandi calciatori della storia del Cile. Lo chiamavano Il re del metro quadro, perché se prendeva palla in area era gol. Non è alto né magro, ma è rapido come pochi, di gambe e di testa. Doti che gli hanno permesso di vincere tanto con il suo Colo Colo e di segnare 29 gol con la maglia della Roja. Meglio di lui solo Marcelo Salas e Ivan Zamorano.
«Sono stato un calciatore, ma sono prima di tutto un essere umano. Non si può stare fermi a guardare gli altri soffrire: è per questo che ho detto no» – spiega oggi Carlos Caszely.
Con i ricordi torna indietro a 40 anni fa. A quell’altro 11 settembre, quello del 1973, quando il colpo di stato pone fine all’esperimento socialista di Salvador Allende. «Quel giorno ero in ritiro con la nazionale» – racconta Caszely – «Stavamo preparando lo spareggio con la Russia per il Mondiale del 1974. Eravamo senza radio né giornali, isolati. Ma avvertivamo che qualcosa stava succedendo. Da fuori arrivavano rumori assordanti: era il bombardamento della Moneda. Ricordo bene la sensazione che provai: una angosciante incertezza».
Poi arriva il timore. «Che divenne paura e infine terrore» – aggiunge – «E pena per il sacrificio della nostra gente. Tristezza nel pensare a un fratello che uccideva un altro fratello». La repressione di Augusto Pinochet è brutale. Operai e studenti, artisti, avversari politici e semplici sospetti sono portati all’Estadio Nacional di Santiago. Il tempio del calcio andino diventa un lager: in migliaia sono fucilati, altrettanti spariscono nel nulla. Molti di loro non sono ancora stati ritrovati. Le donne sono torturate e violentate, dai militari e dai loro cani. Donne come la mamma di Carlos.
Il 21 novembre del 1973, poche settimane dopo il Golpe, su quello stesso campo è prevista la partita di ritorno tra Cile e Unione Sovietica. È lo spareggio per accedere ai Mondiali tedeschi, la partita che Caszely e i suoi compagni stavano preparando mentre il presidente Allende veniva ucciso. All’andata era finita zero a zero: al vincitore del match in regalo un biglietto per Berlino.
L’URSS si rifiuta di giocare nello stadio dei massacri. Chiede di cambiare terreno di gioco, la Fifa si gira dall’altra parte. La vittoria va al Cile a tavolino. Un successo imbarazzante, non per il regime di Pinochet che vuole glorificarsi con una parata. Organizza una partita amichevole all’Estadio Nacional. I gerarchi sono in tribuna d’onore, i militari a bordo campo. Caszely pensa all’insubordinazione: quando gli arriverà la palla lui la butterà fuori. Poi la palla gli arriva e lui la gioca: gli è mancato il coraggio di dire no. Negli spogliatoi ha un mezzo mancamento. Un suo compagno, il Chamaco Valdes, convinto socialista, vomita l’anima.
È l’ultima volta che dico di sì, promette. Più volte negli anni successivi si schiera contro la dittatura, come nel caso del plebiscito del 1980. La paga cara, lui e la sua famiglia. «Per molti fattori, negli anni di Augusto Pinochet, gli sportivi subirono particolarmente la repressione del regime» – spiega – «Molti atleti sono stati colpiti, più di uno torturato brutalmente».
Nel frattempo Caszely, figlio di un ferroviere di origini ungheresi e sostenitore dell’Unidad Popular di Allende, ha lasciato la sua squadra, il Colo Colo e il paese. È andato a giocare in Spagna, Levante prima e Español poi.
«Ma non mi sono mai sentito un esiliato,» – dice con la sua voce roca – «anche se tutti erano a conoscenza delle mie idee di sinistra. Perché non le ho mai nascoste».
Ai mondiali del ’74 Caszely sembra giocare contro se stesso e il suo paese. Nel match d’esordio a Berlino Ovest con i padroni di casa (1-0 per la Germania Ovest, gol del maoista Paul Breitner) si fa espellere: è il primo cartellino rosso nella storia dei campionati del mondo. Prima le sanzioni si comunicavano verbalmente ai giocatori. Quel rosso sventolato davanti alla faccia del cileno diventa una foto simbolo.
Per anni è allontanato dalla nazionale, anche se in Spagna non smette mai di fare gol. Sono gli stessi vertici militari a imporre che Caszely non giochi più con la Roja. I simboli della squadra ora devono essere altri: don Elias Figueroa, vicino a Pinochet, o Oscar Fabbiani, argentino appositamente naturalizzato.
Nel 1978 torna in patria «per stare vicino alla madre che aveva sofferto la cattiveria del regime» Per lui è di nuovo pronta la maglia del Colo Colo. Per tre anni di fila è capocannoniere. A furor di popolo torna in nazionale e, nel 1982, partecipa ai Mondiali di Spagna. Contro l’Austria sbaglia un rigore.
Lo ha fatto apposta – titola la stampa di regime, che cerca e trova in lui il capro espiatorio. I rapporti del campione con Pinochet non migliorano. «Non l’ho mai degnato di un saluto» – rivendica Caszely.
Una volta, ad un incontro ufficiale, il dittatore vorrebbe che il giocatore si togliesse la sua solita cravatta rossa. «Questa è sempre qua, vicina al mio cuore» – gli risponde lui. Questo aneddoto, come molti altri, è raccontano in un bel episodio della serie recente di documentari Les rebelles du foot, presentati da Eric Cantona [In Italia sono trasmessi in questi giorni sul canale del digitale terrestre La F, NdR].
Caszely si ritira tre anni dopo e la sua partita di addio si trasforma in una manifestazione contro la dittatura. Scoppiano incidenti, i militari fanno ormai fatica a contenere la piazza. Poi arriva il 1988 e il Cile coglie finalmente, grazie a un referendum. l’opportunità di voltare pagina (come raccontato da Pablo Larrain nel film No – I giorni dell’Arcobaleno).
«Andai alle urne tranquillo” – ricorda l’ex centravanti – «Tutti quanti apparivano così da fuori. Ma dentro eravamo molto nervosi: dovevamo farla finita, dire basta alle nostre sofferenze. Fu così che andò, per fortuna».
Anche grazie a quel video, alle parole sue e della signora Garrido, pensano in molti. «Io sapevo che il 90% del paese voleva tornare alla democrazia” – aggiunge. «In Cile c’è gente di sinistra buona e gente di destra buona. Credo che il paese, in quel momento e sempre, avesse solo bisogno di vivere in pace e tranquillità».
Oggi Caszely fa il commentatore per una TV cilena, ha i capelli corti e grigi. I baffi sono quelli di allora, però, come le sue idee. Osserva un paese libero, anche se tutt’ora «confuso e diviso».
«Purtroppo alcuni politici di allora hanno ancora troppo potere e, come allora, non fanno nulla per il bene del popolo. Però adesso abbiamo maggiore coscienza sociale. Abbiamo imparato dagli errori del passato, anche se qualcuno continua a commetterli».
Ma c’è la possibilità di un nuovo Pinochet all’orizzonte? «No, non credo ci siano le condizioni» – risponde. «Anche perché non bisogna mai dimenticare il ruolo degli Stati Uniti in quella vicenda».
Carlos Caszely ha detto no, si è rifiutato di diventare uno strumento di propaganda del regime come avrebbe voluto Augusto Pinochet, che infatti lo ha sempre detestato. Per i cileni, 40 anni dopo, il mito è lui, non solo per quei gol nell’ultimo metro quadro.
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Qui l’audio dell’intervista:
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Una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata ieri martedì 10 su Extra Time della Gazzetta dello Sport. L’audio dell’intervista è andato in onda durante la trasmissione Ascolta Cile di Radio Popolare, dedicata ai 40 anni dal golpe di Augusto Pinochet. Si ringrazia per idee, collaborazione e amicizia Chawki Senouci.
Puoi trovare Dario Falcini su Twitter.
Solo una parola: grazie! Per me Caszely era solo una figurina, resa forse più interessante da quei baffi e dall’aria simpatica, e dal nome curioso per un cileno – adesso grazie a questo articolo la figurina ha assunto tre dimensioni, e che dimensioni!
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quando la storia diventa epica e dei semplici uomini diventano EROI. Grazie!