[Riceviamo e pubblichiamo]
di Antonio Moschella
«Lo mejor de Barcelona, es ser del Espanyol» (Il meglio di Barcellona è essere dell’Espanyol) . Con queste parole, alternate a lacrime singhiozzanti, Luis Garcia chiudeva la sua conferenza stampa di addio alla squadra catalana. Lui, da poco eletto capitano, lasciava Barcellona dopo 6 stagioni di alti e bassi, ma nelle quali aveva potuto apprezzare un sentimento sconosciuto ai più. Si perché non esiste un senso di appartenenza così viscerale verso un club che vive da sempre all’ombra del Barcellona, la realtà che ora sta scrivendo un capitolo indimenticabile della storia del calcio mondiale.
Il 12 Gennaio scorso, dopo quattro mesi, l’undici allenato dal messicano Aguirre è finalmente uscito dalla zona retrocessione, grazie alla vittoria sul Celta di Vigo. Nonostante la situazione sia ancora critica, nei visi dei tifosi all’uscita dello stadio si notava una certa distensione, figlia della vittoria striminzita contro il Celta, il rivale diretto per la salvezza. Lo spettro della Seconda Divisione alberga ancora minaccioso in quel di Cornellà, comune a ovest di Barcellona, e in molti sono consapevoli che bisognerà sudare molto per evitare la perdita della categoria, cosa che non avviene dalla stagione 1992-93.
Ma cos’è davvero il Real Club Espanyol? Il nome di questa società in un luogo caldo politicamente come la Catalogna – dove l’idea dell’indipendenza assume connotati sempre più definiti – dice molto. Tuttavia, nonostante sia il Barcellona a fregiarsi di portare in alto l’emblema della catalanità, è bene fare un po’ di chiarezza al riguardo.
Il club blaugrana fu fondato nel 1899 da Joan Gamper, uno svizzero, e durante i suoi primi anni accettava solo giocatori stranieri tra le proprie fila. L’anno dopo nacque quindi la Sociedad Española de Fútbol, dove i componenti della rosa erano catalani o spagnoli. Insignito nel 1912 del titolo di Real Club da parte del Re Alfonso XIII, vide crescere nel suo grembo il mitico Ricardo Zamora, storico portiere che dà il nome al titolo riservato al miglior estremo difensore della Liga.
A dispetto del nome, durante il franchismo fu una delle squadre che subì le maggiori perdite di uomini e fu costretto a una rifondazione globale. Nonostante tutto nel 1940, a guerra ormai conclusa, l’Espanyol vinse la Copa del Generalísimo ai danni del Real Madrid, simbolo del potere, proprio sotto gli occhi di Francisco Franco.
Negli anni della dittatura l’allora “Español” era oscurato dall’egemonia del Barça in Catalogna, mentre il Real Madrid faceva incetta di titoli. Tuttavia nessun espanyolista dimenticherà mai la vittoria per 6 a 0 nella stracittadina del 1951 (ancora oggi è la vittoria più schiacciante in un derby barcellonese) e il raggiungimento dei quarti di finale in Coppa delle Fiere (la vecchia coppa UEFA) nel 1961. In quel periodo la rivalità tra il Real e il Barcellona era la principale attrazione della Liga, e la squadra biancoazzurra riuscì comunque a ottenere per due volte la terza posizione nella decade degli anni ’70.
Una volta conclusasi la dittatura, l’ombra del Barça, la squadra antisistema per eccellenza, cominciò a farsi sempre più imponente e l’Espanyol (dal 1978 con il nome tradotto in catalano) continuò a nutrirsi di vittorie sporadiche fini a sé stesse. Nel 1997 il comune gli concesse l’utilizzo dello Stadio Olimpico Lluis Companys (dal nome del presidente della Generalitat catalana, fucilato dalle truppe franchiste nel 1937) sito sulla collina di Montjuic. Ancora una volta la sorte colpiva beffarda: Il Real Club Deportivo Espanyol aveva come teatro uno stadio intitolato all’unico presidente catalano giustiziato sulla pubblica piazza, il martire del regime per antonomasia.
Si è, difatti, sempre insinuata una certa relazione tra l’Espanyol e il franchismo, spesso ricalcata da molti tifosi culé (del Barcellona), che accusano ripetutamente il club rivale di essere troppo indulgente negli scontri contro il Real Madrid e di lottare invece all’ultimo sangue nei derby. Ma alla fine lo stadio che si sarebbe potuto chiamare Juan Antonio Saramanch – ministro dello Sport spagnolo durante il regime franchista nonché principale promotore dell’Olimpiade catalana – fu lo scenario dove la squadra allora presieduta dal caparbio Dani Sanchez Llibre avrebbe costruito le basi per i successi del nuovo millennio.
Il tifoso dell’Espanyol si caratterizza per la sua pazienza e per il suo saper sopportare la gogna mediatica che porta l’essere sempre all’ombra del Barça. La força d’un sentiment, la forza di un sentimento, questo è il motto dei biancoazzurri, i cui seguaci si dimostrano sempre fedeli nonostante la squadra non riesca mai a fare il salto di qualità. Nel 2000 qualcosa iniziò, apparentemente, a cambiare. Le due Coppe del Re conquistate nel 2000 e nel 2006 segnarono l’epoca più fruttifera, a cui si aggiunse la medaglia d’argento vinta in Coppa Uefa nel 2007, quando a Glasgow il Siviglia di uno straordinario Enzo Maresca gli fu troppo superiore.
In quest’ultimo decennio elementi individuali di grande spessore hanno scritto un capitolo intero della storia del club: Raúl Tamudo e Ivan de la Peña sono ormai idoli incontrastati nell’immaginario del tifoso espanyolita. Entrambi hanno un punto in comune non da poco: l’appartenenza alla rinomata cantera del Barcellona. Eppure, mentre Tamudo fu scartato quando ancora militava nella Primavera, De la Peña arrivò fino in prima squadra e si distinse come il fido scudiero di Ronaldo, che prima di diventare per tutti “El Gordo”, aveva illuminato la Liga con i suoi gol e le sue giocate uniche.
Tamudo, tipico attaccante d’area di rigore, resterà un vivido ricordo dei tifosi españolisti per il famoso “Tamudazo”, ossia il gol che nel maggio 2007 permise ai biancoazzurri di pareggiare 2-2 al Camp Nou contro il Barcellona di Rijkaard, che allora si giocava il titolo contro il Real Madrid. Ma Tamudo è stato in primis bomber e capitano di una squadra che raramente aveva potuto fare affidamento su personalità forti, e con De la Peña fu il collante di un gruppo solido e concreto.
Già, De la Peña. Un regista dalla visione di gioco pari quasi a quella di Xavi o di Pirlo, che era stato esaltato troppo presto quando militava nel Barça e che in Italia aveva meramente fallito alla Lazio, a causa del gioco troppo spezzettato, maschio e poco incline ai ricami del nostro campionato. Il ritorno a Barcellona, stavolta dall’altra sponda, fu per lui una seconda giovinezza. La coppia De la Peña – Tamudo salvò varie volte l’Espanyol dalla retrocessione e ancora oggi i tifosi biancoazzurri inneggiano ai loro nomi.
Adesso l’Espanyol ha un’altra casa, lo stadio di Cornellá – El Prat, fuori città. Non sarà lo stadio olimpico ma la gente finalmente lo sente suo, non una concessione di circostanza del comune. Tirato su con un grande sacrificio economico, che ha comportato la vendita di giocatori simbolo come Riera, Pareja, Zabaleta e l’attuale centravanti della Roma Osvaldo, il nuovo tempio dell’Espanyol può contare sulla presenza fissa di Dani Jarque, ex capitano e bandiera morto di infarto nell’agosto 2009 durante un ritiro estivo dell’Espanyol a Coverciano. Tutto lo stadio oggi ricorda questo promettente difensore in odore di nazionale al minuto 21 della partita. Un applauso scrosciante è il periodico omaggio a un calciatore che anche Andrés Iniesta ha voluto ricordare dopo aver messo a segno il gol che valeva un mondiale, l’11 luglio 2010.
Questo è l’Espanyol. Una tifoseria passionale e difficilmente scoraggiabile. Unica squadra di una grande realtà europea a non poter vantare neanche un titolo di campionato, sarà sempre la seconda compagine di Barcellona. Soffocata dal “Més que un club”, slogan dei ‘despoti’ blaugrana, l’Espanyol, nonostante gli sforzi della dirigenza e le sofferenze della tifoseria, resterà sempre quello che è adesso, il figlio di un dio minore.
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Antonio Moschella è su Twitter.
Nella pur accurata descrizione della storia della ‘seconda’ squadra di Barcellona manca però la finale di Coppa Uefa della stagione 1987/88, quando gli spagnoli persero ai rigori con il Bayer Leverkusen. In quella edizione della coppa eliminarono sia Milan che Inter.
Hai ragione Luca. Il fatto è che mi sono concentrato più sul recente passato dato lo strapotere del Barça che ha messo in secondo piano l’Espanyol. Comunque ti ringrazio per l’ottima segnalazione/correzione!
“il Siviglia di uno straordinario Enzo Maresca gli fu troppo superiore”? Siviglia ha vinto la finale in Penalty kicks dopo 2-2 in tempo di gioco, e il Espanyol giocava con 10 da il minuto 68!
La Força d’un Sentiment!!!
In Piazza del Re a Barcellona visitai un bar club dell’Espanyol, ricordo un piccolo ingresso, sembrava di entrare in un circolo di cospiratori…alle pareti molti poster, in bella evidenza quelli della squadra del 87/88 che arrivò in finale di coppa Uefa.
Lo stadio dell’Espanyol non è stato fino al 1997 il Sarrià, quello di Italia-Brasile 3-2?
Dici bene Zatopek, lo stadio dell’Espanyol è stato il mitico Sarrià, scenario dello show di Paolo Rossi
articolo molto bello.. ma qualcosina sul rayo vallecano? terza squadra di madrid (ancora più sfigati), la squadra degli ska-p, per intenderci..
grazie
un saluto
Non puoi fare un paragone tra l’Espanyol e il Rayo Vallecano. Il primo è l’espressione di un’intera città, una parte minoritaria, ma pur sempre di una città. Il Rayo invece è l’espressione di un quartiere, e niente più. Una squadra che vuole rappresentare una città si propone implicitamente di guadagnare consensi nella cittadinanza (e per l’Espanyol a maggior ragione, dato ogni nuovo tifoso, ogni bambino che da piccolo sceglie la casacca biancazzurra è un tifoso rubato alla causa blaugrana), mentre la squadra di un quartiere punta solo a radicarsi sempre più all’interno di quelle poche vie che lo compongono. Quindi non un’espansione in termini numerici, ma di qualità dei tifosi.
E aspetta un momento a definire sfigati quelli del Rayo. Nel quartiere sono estremamente ed orgogliosamente radicati, tanto che riescono a riempire uno stadio (anch’esso situato nel quartiere) con 10 K spettatori. Prova a vedere se l’equivalente italiano del Rayo, il Chievo, che peraltro non ha nemmeno lo stadio nel territorio, riesce a fare numeri simili!
Il bello di tifare l’Espanyol è che tutto è fuori dal conformismo marcio di chi tifa Barcelona . Come a Roma chi non tifa Roma ,di cui il 70% ci simpatizza solo perchè si chiama come la città in cui vive e nulla piu… Tifare L’Espanyol significa avere carisma ,personalità ,palle quadrate ,un senso di appartenenza unico! A Barcellona i tifosi dei biancblu sono pochi ,ma coloro i quali lo tifano hanno rispetto e ammirazione prima nella vita e poi nel calcio! Se fossi nato a Barcellona non esiterei un soo secondo a sentirmi da subito un tifoso dell’Espanyol
Come mi sento vicino ai tifosi dell’Espanyol. E’ l’orgoglio di chi appartiene e sa di appartenere ad una minoranza che tale sempre resterà. Ma sopperisce con la passione alla esiguità numerica. In altre parole, meglio un tifoso dell’Espanyol che tre del Barcelona.
E per traslare il discorso nella mia città, meglio un tifoso del Monza che dieci del milaninterjuve.
Greetings Espanyol from Monza!!!!
La grandezza del Barca ti lascia senza fiato. Ma io che tifo Fiorentina e non gioisco dal 1969 (avevo appena 6 anni…), non ho dubbi. Forca Espanyol