Il National Football Museum di Manchester

[Riceviamo e pubblichiamo il primo di una serie di reportage che Alessandro Gori regala a Fútbologia]

di Alessandro Gori

La passione per il Beautiful Game

Mi trovo di passaggio a Manchester verso lo storico appuntamento con la partita che l’Udinese giocherà questo giovedì ad Anfield [quella di ieri sera, sai che goduria, NdR].

Già quest’estate in un’altrettanto rapida visita alla città ero rimasto sorpreso nel sapere dell’apertura, il 6 luglio scorso, del National Football Museum. Un museo dedicato interamente al calcio, una vera delizia per gli appassionati (e non), il più grande al mondo nel suo genere.

120817 National Football Museum Manchester

In realtà il grosso della collezione, trasferita, riveduta e corretta, è la stessa dell’omonimo Museo che non senza ragione si trovava precedentemente a Preston, una cittadina non lontano da qui. Nobile decaduta, il Preston North End milita ora in Terza Divisione, ma fu tra i fondatori della Lega Inglese e vinse addirittura il primo campionato mai disputato (1888/89). Avevo pensato di passare da Preston un giorno o l’altro, ma non si può dire che non si trovi fuori mano.

Lo stesso hanno pensato i responsabili del museo, come Adam Comstive, che mi spiega: «Conservare la sede a Preston non era più sostenibile. C’era però la volontà di mantenerlo nel Nord Ovest dell’Inghilterra che storicamente costituisce una delle regioni più importanti per il calcio ed è conosciuta in tutto il mondo anche per i suoi club».

Per la mia piccola esperienza non posso che confermare l’emozione che ho provato visitando gli stadi o assistendo a partite interne di United, City, Liverpool o Everton. Ma nei dintorni hanno sede moltissimi altri club, grandi e piccoli.

Il comune di Manchester ha dunque deciso di promuovere il cambio di residenza utilizzando il palazzo che ospitava collezioni temporanee legate alla cultura popolare. «L’idea è proprio questa» continua Comstive. «Toccare molti aspetti del calcio inclusa l’influenza che ha avuto e che mantiene nella società e nell’ambito pop, non solo qui in Inghilterra ma in molti angoli del mondo. È una delle chiavi, infatti molti dei nostri visitatori non sono necessariamente degli appassionati di questo sport».

Al contrario di ciò che succede in Italia, in altri paesi il calcio viene considerato anche come materia di studio, di ricerca accademica e sociale, o come pura letteratura come avviene in America Latina o in Spagna.

L’Urbis, la sede del Museo situata in pieno centro, è semplicemente impressionante, una specie di piramide di cristallo lunga e stretta costruita dall’architetto locale Ian Simpson nel 2002.

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Importante è stato l’investimento, sostenuto dal Fondo Europeo per lo Sviluppo Regionale, ma è sorprendente scoprire che l’entrata al museo è gratuita. «L’idea è di mantenerla tale, anche se ovviamente cercheremo di sfruttare gli aspetti commerciali». Infatti al suo interno si trovano anche un negozio con interessanti oggetti legati al calcio e un bar e ristorante.

«Finora la risposta è stata ottima. In città si sono giocati alcuni incontri del torneo olimpico di calcio e moltissimi brasiliani sono venuti a trovarci in occasione della partita contro la Bielorussia. È anche un’occasione per offrire un’alternativa ai tifosi che arrivano in città». E altri stanno arrivando nella regione per i turni di Champions e Europa League.

All’entrata con vista parziale verso i piani successivi si trova la cosiddetta Hall of Fame, con in alternanza i personaggi che hanno fatto la storia del calcio inglese introdotti brevemente. Unico italiano presente è Gianfranco Zola, ancora amatissimo.

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Al primo piano il grosso delle collezioni, con diverse divagazioni tematiche e storiche. Centinaia di oggetti, dai più antichi agli albori del gioco a quelli più recenti, dai campionati inglesi fino ai Mondiali.

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Alcuni pezzi sono in esibizione temporanea, come una chicca che rimarrà qui per pochi giorni ancora: il libro originale con le regole decise nel 1863 in una riunione dalla Football Association (FA, la celeberrima Federazione Inglese) poco prima dell’organizzazione della più antica competizione del calcio moderno, la FA Cup (da noi chiamata Coppa d’Inghilterra) che iniziò proprio quell’anno.

O il secondo dei tre trofei della stessa FA Cup utilizzati nella storia fino a oggi: il primo fu rubato da una finestra di un negozio sportivo di Birmingham nel 1895 e mai più ritrovato, mentre questo venne usato dall’anno successivo fino al 1910.

 

Oppure il pallone originale della finale dei Mondiali del 1966, che era stato stranamente tenuto da Helmut Haller; sembra che secondo una tradizione tedesca il primo marcatore si portava a casa la palla dell’incontro. Ma anche la moda fuori dal campo del “Quinto Beetle” George Best.

 

E i tragici avvenimenti locali, come la struggente storia dei Busby Babes, la fantastica squadra del Manchester United schiantatasi a Monaco di Baviera il 6 febbraio 1958 di ritorno da un incontro di Coppa Campioni contro la Stella Rossa.

 

O il disastro di Hillsborough, lo stadio di Sheffield in cui nel 1989 persero la vita 96 tifosi del Liverpool schiacciati dalla folla in una semifinale di FA Cup contro il Nottingham Forest.

 

Per la felicità di grandi e piccoli sono molti gli spazi interattivi (alcuni a pagamento), soprattutto al secondo piano,

 

che ospita anche esposizioni su arbitri e allenatori (da queste parti chiamati Managers) come il celebre Brian Clough, uno dei personaggi più pazzi e affascinanti che abbia prodotto il Football.

 

Moltissimi i filmati d’epoca, ma anche un simpatico cortometraggio creato per l’occasione dal titolo Our Beautiful Game: vi si racconta una giornata sui campi di calcio di tutto il paese, dai campetti di periferia a Wembley, da cui emerge la passione che il gioco emana a queste latitudini.

 

Al terzo piano si trovano alcune esibizioni temporanee, quali “Calcio e Arte in Africa Occidentale” e l’esposizione “Homes of Football” in cui vengono presentate le foto coinvolgenti di un artista della macchina fotografica quale Stuart Roy Clarke. Stuart ha passato gli ultimi vent’anni perlustrando stadi e campi sportivi britannici, dalla Premiership alle divisioni inferiori, riuscendo come nessuno a trasmettere l’emozione della gente e del gioco.

 

Non mancano le storie affascinanti. Tra le ultime acquisizioni c’è la maglietta che Bobby Moore aveva scambiato con Pelé dopo Brasile-Inghilterra nei Mondiali del 1970, rimasta a lungo appesa sui muri di un fumoso bar in Brasile dove ha acquisito i segni dalla nicotina; dettagli che si aggiungono alle storie personali.

Forse la più originale però riguarda la famosa maglia azzurra che Maradona indossava nella celebre partita dell’86 contro l’Inghilterra, quella del gol più bello della storia dei Mondiali e della Mano de Dios. Maradona era rimasto a lungo sul terreno di gioco dopo la fine dell’incontro; sembra che dopo i festeggiamenti si sia presentato nello spogliatoio inglese per chiedere di scambiare la maglietta con qualcuno. Visto com’era andata la partita (e soprattutto la prima rete) si può ben immaginare quale sia stata la reazione, mugugni e nessuno che volesse farlo. Alla fine Steve Hodge, proprio il difensore che aveva toccato indietro la palla intercettata dalla mano di Diego, accettò quasi controvoglia, ma al ritorno in patria la maglia mise in una borsa o in un cassetto e se ne dimenticò. Solo a distanza di anni la ritrovò quasi per caso e si accorse di possedere un tesoro, almeno calcistico.

 

Come testimonia una frase di Arsène Wenger in uno dei meandri del Museo, «Quando sono venuto in Inghilterra per la prima volta ho pensato che senza alcun dubbio il gioco del calcio è stato creato qui».

E c’e anche il sito web del Museo.

Tutte le foto sono state scattate dall’autore che ne detiene i diritti.

Alessandro Gori (Udine, 1970), giornalista freelance e da sempre appassionato di calcio, è malato di Balkani, Caucaso, America Latina, Catalunya ed Euskal Herria, e più in generale dei territori complicati e problematici.

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