Ci sono personaggi, nel mondo del calcio come nella vita, di cui è possibile sentire la mancanza pur senza riuscire a focalizzarne con chiarezza il motivo. Spesso la sensazione, in questi rari casi, è quella di sentirci costretti, nostro malgrado, a ridurre la complessità di un’intera esistenza a poche, ridondanti immagini. Intimamente sappiamo, pur senza saperlo veramente, che tutto non può finire dentro a quell’omologante ricordo collettivo. ‘Dev’esserci molto altro’, ci ripetiamo infastiditi da come l’apparenza delle cose più belle riesca talvolta a offuscarne la profondità che le ha precedute e seguite. Una profondità che intuiamo nella misura di quel vuoto ora percepito.
Enzo Bearzot è una di queste persone. In molti possono circoscriverne il ricordo a quello, indimenticabile, che lo vide sollevare alla guida della Nazionale italiana il massimo trofeo calcistico planetario, nel cuore pulsante del Santiago Bernabeu, la sera di quel lontano 11 luglio. Diviene fin troppo facile costringerlo all’interno di quell’infuocato mese spagnolo, durante il quale gli Azzurri rovesciarono ogni pronostico, conquistando un Mondiale contro tutto e tutti, a partire dalla disillusione dei propri tifosi. Eppure ci dev’essere dell’altro, molto altro in grado di condurre a quegli eventi e guidarli affinché si svolgessero in quell’esatta maniera, preservandone la bellezza fino ad oggi, unità ad una sacralità del tutto umana. Tra i modi migliori per scoprirlo c’è quello di leggersi il libro che Gigi Garanzini ha dedicato alla figura del Vecio “Il romanzo del vecio. Enzo Bearzot, una vita in contropiede“.
Attraverso una lunga intervista che scorre veloce e tagliente come il racconto di una vita, ottimamente diretta dal giornalista, è Bearzot stesso a parlarci della sua professione di giocatore prima, e di allenatore poi. Quella di un ragazzo divenuto uomo senza mai abbandonare il proprio sogno calcistico; un sogno per nulla legato alla dimensione del successo, di cui nel libro non si trova quasi evocazione diretta, quanto piuttosto alle dinamiche di una disciplina sportiva capace di trasformarsi nell’allegoria di un’intera esistenza. Dai primi promettenti passi mossi a Milano con la maglia dell’Inter, alla notizia traumatica della cessione al Catania, città ricordata oggi per un’accoglienza materna; dall’epopea granata, capace di crescere il capitano Bearzot tanto da portarlo a muovere i primi passi di allenatore al fianco del mitico paròn Rocco, fino alle prime esperienze in Federcalcio. Dai ricordi della maglia Azzurra, il suo più grande e mai tradito amore, che condusse da commissario tecnico al trionfo più bello, per concludere con l’ostracismo palesatosi con la presidenza Matarrese, sintomo sportivo di un paese in rovina, capace di umiliarne la figura fino a costringerlo lontano dal mondo del calcio, quando ancora avrebbe avuto molto da dire, per lasciare il palcoscenico ai presunti profeti del nuovo calcio tecnocratico.
La figura del Vecio esce da questo libro ripulita dell’ingombrante e svilente ricamo che vorrebbe innalzarlo sul trono eterno di un singolo istante, per venire umanamente riconosciuta nel valore incommensurabile di chi seppe affrontare a muso duro ogni sfida travalicante i limiti del rettangolo di gioco, nel tentativo di intaccarne la dignità. Non fa mai i nomi di chi lo denigrò prima di vederlo trionfare, Bearzot, evitandosi il gusto di facili rivincite, ma punta chiaramente il dito, nell’ultimo capitolo, contro chi lo umiliò professionalmente e chi trasformò quello che fu il suo posto in panchina nel palchetto della propria superbia, umiliando quelli che erano stati i suoi ragazzi, seppur con volti oggi rinnovati. Ma a sorprendere maggiormente è forse la profondità filosofica del suo pensiero e del suo percorso, riuniti dalla colla di una coerenza priva di ombre. Il legame con le proprie radici e la propria storia diventa fulcro del lavoro sul campo, mentre la necessità di comprendere i giocatori prima di tutto come uomini diviene l’arma da sfoderare nei momenti più bui, dove la fiducia reciproca rimane la sola arma per risollevarsi, uniti dalla consapevolezza di poter contare sui propri compagni. Dal Bearzot-pensiero escono spiegazioni più chiare e comprensibili per il Mundial vinto, e per tutte le imprese che avrebbero potuto seguirlo o precederlo, di quante se ne siano mai lette mescolate alle quotidiane banalità sul celebre silenzio-stampa cementificante, o sull’italico carattere capace di emergere contro le grandi, per un tanto presunto quanto presuntuoso dna da Belpaese in cartolina.
Attraversando in un rapido excursus il calcio giocato dai più grandi interpreti, nonché suoi avversari, del secolo scorso, l’ex-CT ci regala un’impagabile lezione di saggezza tecnica e tattica, di capacità di adattamento e di riflessioni sull’evoluzione di uno sport che è ormai divenuto specchio del mondo. Fra le innumerevoli perle rinvenibili nel libro, mi sembra giusto segnalare quella che meglio riassume il corso e il senso del testo di Garanzini, permettendoci di sognare che nel silenzio di un vuoto incolmabile, il sorriso sghembo del Vecio continui ad illuminarci della sua infrangibile e umana dolcezza.
Io credo che chi oggi vive di calcio si debba innanzitutto sforzare di creare, anzi di ripristinare un’atmosfera. Necessaria e sufficiente a conservare quella percentuale di spirito amatoriale che si ha quando si comincia. Quindi la gioia di partecipare, la voglia di vincere, ma anche il rispetto per chi perde, un filtro che impedisca commistioni eccessive con il tifo. […] Se gli attori del calcio si convincessero della necessità di rispettare questi princìpi, il segnale educativo per le masse sarebbe certamente forte.
La scheda del libro su Anobii:
Il romanzo del vecio. Enzo Bearzot, una vita in contropiede.
di Gigi Garanzini
Editore: Baldini e Castoldi, 1997