[Riceviamo e pubblichiamo – di Filippo Marano]
Per quelli che sono nati sul finire degli anni ’80 i bei vecchi tempi del football non sono mai esistiti. O meglio, hanno i contorni della leggenda, sono una mitologia a posteriori che non dà alcuna garanzia di essere mai esistita.
I primi ricordi calcistici di costoro sono probabilmente legati a una delle più cocenti e dolorose sconfitte della nazionale italiana: la finale dei mondiali statunitensi del ’94 persa ai rigori contro il Brasile. Gli avversari che ci batterono in quella partita rocambolesca (un episodio su tutti: Gianluca Pagliuca bacia il palo che lo ha appena graziato) rimarranno per sempre marchiati a fuoco nella memoria di un’intera generazione: in particolare, quella coppia d’attacco minuscola – solo per corporatura fisica– formata da Romario e Bebeto. Due nomi che fanno da spartiacque tra i miti verde-oro degli anni Sessanta e i ben più concreti successori di fine millennio, i primi veri calciatori robot della storia.
Eppure, quella delusione sportiva conserva oggi un retrogusto dolce, esaltato dalla distanza temporale che ne attenua ulteriormente l’amarezza: richiama infatti alla mente di chi la seguì in televisione l’Italia di Arrigo Sacchi (e non ci sarebbe altro da aggiungere, se non il nome che più di ogni altro è stato e continua ad essere sinonimo di fuoriclasse stimato anche per l’aspetto umano: Roberto Baggio).
Viste con il senno di poi, scene come il pianto di Baresi sono una miniera d’oro per i giovani appassionati di calcio odierni, in quanto rappresentano le poche in grado di condensarsi a formare il loro immaginario culturale. Insieme a questi, ci sono altri episodi che si sono sedimentati nella corteccia cerebrale di chi non ha mai considerato la sfera una semplice figura geometrica. É vero che le sfide combattute sul cemento, prendendo a pedate un pallone da spiaggia capace delle traiettorie più improbabili, sono le prime a venire a galla nella memoria collettiva. Tuttavia, la più atavica delle esperienze, primordiale tanto nel senso cronologico quanto in quello emotivo, è il Subbuteo.
Per chi non avesse sentito mai nominare questo gioco da tavolo, potrebbe tornare utile il manuale di Daniel Tatarsky (Isbn Edizioni) dal sottotitolo non casuale: Storia illustrata della nostalgia. Giocarci davvero, però, è un’altra storia.
Lo storico slogan del passatempo inventato dall’ornitologo inglese Peter Adolph nel 1947, Just Flick to Kick, riassume nella sua semplicità tutta l’essenza del Subbuteo. La normalità del colpetto da dare con l’unghia a una miniatura di qualche centimetro, che potrebbe farlo apparire come un gesto infantile, stride con la professionalità necessaria per competere a livelli quantomeno mediocri. Non che per divertirsi sia necessario a tutti i costi diventare dei campioni del mondo (ebbene sì, esistono dei Campionati Mondiali anche di Subbuteo); se così fosse, si perderebbe l’ingenuità che caratterizza qualsiasi attività ludica; tuttavia, essendo pur sempre un’imitazione dei match disputati negli stadi veri da campioni veri, gran parte del fascino del calcio da tavolo risiede nell’abilità dei partecipanti di riproporre in piccolo le gesta dei loro beniamini, codificandole in qualche modo negli stilemi tipici di questa disciplina.
Non a caso l’Italia è uno dei mercati in cui il Subbuteo ha avuto più successo, sia nella sua prima esplosione, a cavallo tra gli anni Settanta e il decennio successivo, sia nella seconda ondata di vendite degli ultimi anni. Al di là dell’indubbio seguito che il calcio, con tutti i suoi derivati, ha nel nostro Paese, c’è un’altra componente che ha quasi certamente inciso su tale exploit: la nostalgia. Nonostante la conquista della Coppa del Mondo avvenuta appena sei anni fa, lo spettacolo sportivo a cui si assiste da anni al di qua delle Alpi è sconfortante. E ciò che avviene fuori dal terreno di gioco lo è ancora di più. Per questo motivo, il ricordo della Serie A di un tempo diventa particolarmente roseo, collocando nomi e immagini appartenenti a una splendente epoca ormai passata.
È una nostalgia attiva, che vuole ritrovare nel passato gli elementi migliori per progettare il futuro. Quasi si sentissero responsabili più degli stessi protagonisti della galassia pallonara italiana, i tifosi sono i primi a cercare di utilizzare questo sentimento come grimaldello per scardinare lo status quo.
L’attaccamento di miriadi di “inguaribili romantici” ai valori della fútbologia – ben lungi dall’essere tacciabili di “nostalgismo” – è dimostrato dall’ostinazione con cui, in mezzo alla desolazione più evidente, costoro ripetono i gesti compiuti in passato dai loro padri, e prima a ancora dai padri dei loro padri. Il quotidiano rosa perentoriamente portato in giro stretto sotto l’ascella è solo uno di questi rituali (ormai quasi scaramantici). Ma, ancor più, è un dolore del ritorno (νόστος + άλγος) causato dalla lontananza da una realtà storica ormai irrecuperabile: l’Italia che, nel periodo in cui quegli epici confronti venivano disputati negli stadi di tutto il Paese, viveva nelle case, nelle piazze, nelle strade.
L’identità di quel periodo ha una grossa componente calcistica: non soltanto per chi di pallone ne mastica ogni giorno, ma per chiunque sia cosciente di quanto la popular culture – prima ancora di essere teorizzata – abbia inciso profondamente sulla nostra società. Lo sviluppo degli aspetti economici, politici e sociali del Paese è andato di pari passo con quello del suo volto sportivo, in una sorta di evoluzione convergente che ha privilegiato le manifestazioni viziose di ciascun settore, più che quelle virtuose. Il recupero che cerchiamo oggi è di conseguenza finalizzato alla valorizzazione della nostalgia come un patrimonio attivo di conoscenze teoriche e competenze pratiche. In questa prospettiva, quell’Italia in miniatura, quella nazionale azzurra del Subbuteo, rappresenta il punto esatto da cui ripartire.
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Non avete idea di quanto sia vivo l’ OldSubbuteo in Italia. Giochiamo come i pazzi.
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