Boston. Luglio 1994.
Il sottile rivolo di sangue appare incerto sul cratere lunare di una narice umana, prima di lanciarsi rapido lungo uno strapiombo di cute, e fendere la smorfia in cui si schiude una bocca oscena: “Hijo de puta! Hijo de puta! Hijo de puta!”.
L’immagine si allarga sul volto trasfigurato di un uomo che recita il mantra dell’odio, rivolto a chi l’ha colpito e cerca ora invano di sfuggire allo sguardo ostile della propria coscienza. Il dolore e la rabbia lo riportano con la memoria a pochi minuti prima.
Il pallone vola a bassa quota senza seguire alcuno schema oltre all’incosciente e vertiginosa traiettoria dell’improvvisazione. Il campo si è definitivamente trasformato in uno sconfinato palcoscenico, dove tutto ciò che accade lo farà senza lasciarci l’impressione di un copione prestabilito. La vittoria, se vittoria sarà, risplenderà luminosa quanto il volto di un eroe al centro del poema che ne narra le imprese, capace di trasformare la casualità nella linea esatta del proprio orizzonte.
Il lancio attraversa i reparti per infrangersi sulla prontezza di un piccolo attaccante vestito di azzurro, che ne cambia la rotta, replicandone la spiovente perfezione aerea. La palla cade tra i piedi di chi ha deciso di riscrivere il proprio destino, lanciandosi inconsapevole verso il tragico finale che può attenderlo dietro ogni angolo. Non quello, strettissimo, che il suo geometrico talento dipinge inesorabile nel gol più incredibile dell’intero Mondiale. I giocatori spagnoli crollano a terra nel cerchio di centrocampo, increduli per quello cui hanno appena assistito. La più bella sinfonia per orchestra che abbiano mai udito è stata suonata da un singolo musicista. La loro musica non interessa più a nessuno.
Di nuovo il presente. Il sangue continua a colare copioso sul colletto della sua divisa immacolata, che si colora alla velocità dei secondi che scorrono senza tregua. La partita ormai è finita.
A dissanguarsi sono soprattutto i suoi sogni.
Vienna. Giugno 2008.
Il colore di quel plasma rappreso s’intensifica rapidamente, fino a riempire l’intera inquadratura. La maglia che quattordici anni prima indossava quell’uomo ferito è ora scarlatta quanto riescono a esserlo solamente le passioni più sincere. Nessuna rabbia, nessun residuo di quel sangue antico a macchiarne la nuova purezza. La Spagna incanta un intero continente indossando il suo nuovo vestito, ricamato del proprio smisurato talento. E della fede necessaria a trasformarlo nell’ordito di un progetto più vasto: diventare immortali.
Intorno a quei giocatori vagano scoloriti spiriti affranti, memorie stinte di quegli undici guerrieri capaci di batterli al di là dell’oceano, guidati dalla grandezza di chi ora non può più soccorrerne la disperazione. L’azzurro smisurato del cielo americano è svanito nel vuoto di quell’improvvisazione necessaria, ancora una volta, per sognare di potercela fare. Solamente sognare. Oltre ogni irragionevole speranza.
La palla calciata dal dischetto s’infila alla sinistra del portiere italiano, incendiando la polvere da sparo di una felicità trattenuta troppo a lungo. Questa volta esulta il numero 10 spagnolo, con le braccia allargate quanto quelle che l’ultimo angelo azzurro aveva saputo spiegare sul trionfo avversario.
Sette giorni dopo.
La luce di quell’esultanza avvolge le immense mani, finalmente nude, del capitano spagnolo mentre sollevano, in quello stesso stadio capace di spezzare ogni incantesimo, la leggerezza di un sollievo atteso troppo a lungo. La Spagna conquista, dopo un’eternità lunga quarantaquattro anni e disseminata di fallimenti, il secondo titolo europeo della sua storia. Un paese s’inebria di gioia dimostrando al mondo l’orgoglio di un nuovo, antichissimo sogno calcistico: quello di chi vuole pensare calcio prima di lasciarlo discutere dal campo. Il rosso sogno spagnolo è un fiume in piena che, nell’arco di due anni, inonderà i palcoscenici di tutto il pianeta, riverberandosi tanto in alto quanto nessuno prima aveva saputo immaginare. Il cielo sembra ritrovarsi eternamente sospeso nel fiammeggiante colore di una nuova alba. L’azzurro è soltanto un miraggio lontano.
Roma. Maggio 2012.
Il ragazzo dal naso spezzato in cerca di vendetta è cresciuto, e siede ora davanti a una folta platea di giornalisti. Spesso le ragioni di un addio non si nascondono dietro all’irrisolvibile enigma del suo compimento, quanto piuttosto nel senso di tutto ciò che è stato. Luis lo sa bene, e ce lo ricorda nel modo più sincero. La sconfitta ha un peso definito, specie per chi persegue la vittoria in senso assoluto. Quella contro i propri limiti. Giorno per giorno. Senza mai rinnegare le idee che ne definiscono i confini.
Luis crede nella possibilità di un calcio capace di ripensarsi continuamente migliore, ma non è riuscito a dimostrarlo come avrebbe voluto. Sicuramente lo ha fatto più di quanto il pigro e testardo conformismo del paese che lo ha accolto ritenesse plausibile.
Ora il suo sguardo è quello di chi non ha fretta di dimostrarsi migliore di quanto abbia saputo rivelare, ma soltanto la volontà di riflettere più a fondo sui propri inevitabili errori.
“Il calcio è un piccolo spicchio di vita” – sembra pensare dietro ai suoi occhi luminosi – “ma le idee che lo sorreggono ci raccontano gran parte di quel che rimane”.
Danzica. Giugno 2012.
L’uomo è seduto pensieroso sulla soffice erba del campo di allenamento. Osserva i suoi giocatori mentre lottano divertiti per contendersi il pallone, ridendo spensierati. E’ tutto quello che devono fare, adesso. Sono passate poche ore dalla partita contro una delle nazionali più forti di tutti i tempi. Nessuno si aspettava quel risultato, e pochi sognavano quel punteggio. Due cose tanto diverse quanto complementari.
L’uomo si chiede se qualcuno riuscirà a intravedere la fine del progetto che ha sognato e che pochi, prima di lui, hanno avuto il coraggio di tentare. Pensare calcio per immaginarlo in grado di ripensarsi migliore. Instancabilmente. Per potersi ripensare migliori.
Gran partita. Uno a uno. Risultato e punteggio. Ottenuti entrambi contro la squadra da cui tutto ha, in qualche modo, avuto inizio.
“E contro cui” – pensa l’uomo – “sarebbe bello che tutto si decidesse anche alla fine.”
Cesare si alza e osserva sorridente quei ragazzi che sembrano averlo capito prima che lui potesse fare altrettanto. Poi s’incammina verso di loro, senza fretta.
Come il cielo alle sue spalle, che ha ripreso a tingersi d’azzurro.
(*) Gli incontri cui fa riferimento il testo sono i seguenti:
09/07/94 Quarti di Finale Mondiali – Italia vs Spagna 2 – 1
22/06/08 Quarti di Finale Europei – Spagna vs Italia 0 – 0 (4 – 2 d.c.r.)
29/06/08 Finale Europei – Spagna vs Germania 1 – 0
10/06/12 Primo turno Europei – Italia vs Spagna 1 – 1
(**) La prima immagine di Luis Enrique è tratta da Flickr, la seconda da ASRoma. La foto finale viene da Calcioblog.