Rimpianti e domande
Tra i progetti sognati e mai realizzati da Jean-Luc Godard c’era quello di dirigere le riprese della partita finale di un campionato del mondo di calcio. Sfortunatamente Godard non poté mai realizzare il suo sogno e noi cinefili e calciofili siamo stati privati di un’esperienza estetica che, anche sulla carta, mantiene intatto tutto il fascino del possibile.
Questa introduzione piena di rimpianti serve come preambolo per un discorso più ampio (sebbene limitato alla sola dimensione sincronica) sull’estetica della ripresa televisiva calcistica. In questo post cercheremo infatti di rispondere a domande quali: Come vediamo il calcio quando lo vediamo in televisione? Quali sono i punti di vista mobilitati e come vengono articolati per produrre il racconto di una determinata partita? Infine quali gli effetti di senso che si producono?
L’articolazione dei punti di vista
La tecnica di ripresa televisiva fa del totale la sua inquadratura prediletta. Si tratta di una ripresa piana ed estremamente economica in quanto permette di riprendere l’azione nella sua integrità senza perdere nessuno degli elementi informativi, che devono essere riportati nella maniera più neutra possibile.
La ripresa calcistica non fa eccezione a questa regola. Non a caso il totale del terreno di gioco ripreso in campo lungo è l’inquadratura più utilizzata durante la telecronaca di una partita di pallone. Questo perché, appunto, permette di mostrare lo sviluppo del gioco apparentemente senza tralasciare alcun elemento importante (è risaputo il carattere informativo dello sguardo dall’alto).
Tuttavia questa affermazione non è del tutto vera, infatti la ripresa calcistica televisiva è legata a doppio filo ai movimenti del pallone che vengono seguiti dalla macchina da presa (solitamente collocata in posizione soprelevata sul lato lungo del terreno di gioco) la quale si muove in conseguenza dei suoi rimbalzi. Nel suo studio dedicato all’audiovisivo, Michel Chion afferma, parlando dei talk show, che quello costruito dalla televisione è uno spazio essenzialmente sonoro in cui il diritto alla visibilità si conquista sovrastando i propri interlocutori con il tono della voce.
In pratica ciò che produce suono si guadagna il privilegio dell’inquadratura e della visibilità.
Nella ripresa calcistica si può dire lo stesso. Infatti a essere al centro dell’inquadratura è il pallone ovvero l’elemento che coi suoi rimbalzi e coi colpi che subisce produce suono e, di conseguenza, si guadagna la visibilità, e con lui il giocatore che in quel momento sta portando palla (tanto è vero che alcune regie hanno l’abitudine di stringere il campo intorno a un giocatore durante le azioni più salienti, isolandolo dal resto dell’ambiente).
In questa “ossessione” dello sguardo televisivo per il pallone lo spettatore perde la cognizione della natura collettiva dello sviluppo del gioco, ovvero i movimenti che i reparti di una squadra eseguono in risposta alle varie e diverse situazioni che si vengono a creare di volta in volta durante il corso del match. Una situazione che non si verifica quando si assiste dal vivo a una partita di calcio, perché il nostro sguardo biologico non è in grado di isolare i singoli elementi presenti nel campo visivo, così come fa l’occhio della macchina da presa.
Accanto a questo regime di visibilità che assume il campo lungo e il totale come gli elementi principali attraverso cui veicolare la visione vi sono altre inquadrature che contribuiscono al racconto della partita.
Di recente introduzione è la visuale “a volo d’uccello” resa possibile dalla cosiddetta “skycam” ovvero una telecamera sospesa su una teleferica al di sopra del campo e mossa da un verricello. Questa particolare inquadratura permette di osservare l’azione in plongée imponendo uno sguardo dall’alto molto più radicale di quello a cui siamo abituati. Probabilmente, nelle intenzioni di chi ha introdotto questo tipo di ripresa, c’è la volontà di proporre non solo un punto di vista maggiormente spettacolare ma anche un punto di vista maggiormente informativo. Tuttavia l’effetto è spesso alquanto confuso e fastidioso.
Esistono poi tutta una serie di piani ravvicinati che hanno come scopo principale quello di punteggiare la narrazione che avviene nel campo lungo.
Abbiamo già fatto notare come il ruolo del pallone “sonoro” contribuisca ad attirare lo sguardo della macchina da presa facendo sì che, in alcune occasioni (dribbling, tackle, tiri in porta, ecc.), l’azione venga isolata dal contesto tramite l’avvicinamento del punto di vista.
Similmente accade lo stesso nei replay, non soltanto quelli in cui vengono riproposte le azioni salienti, ma anche in quelli che si soffermano sui dettagli di “costume” della partita, ovvero esultanze, espressioni particolari, imprecazioni, sguardi e gesti dei giocatori.
L’immagine rallentata e il piano ravvicinato rendono perciò possibile puntare lo sguardo sulla dimensione molecolare della partita, facendo emergere all’interno del racconto l’elemento emozionale che si mostra in evidenza attraverso i micromovimenti del volto (come accadeva nei primi e primissimi piani della regia di Euro 2004) o attraverso l’esibizione della gestualità (come accade nei piani americani della regia di Euro 2012), eliminando nel contempo qualsiasi elemento informativo relativo allo svolgimento del gioco.
È in questa dinamica alternanza di uno sguardo informativo e di uno guardo che possiamo chiamare percettivo-emozionale che si produce il racconto televisivo del calcio. Si tratta della sola possibilità? È possibile un racconto del calcio che metta in campo elementi differenti e dunque vada oltre il racconto delle azioni salienti e dell’emozionalità dei protagonisti?
Decostruire la visione del calcio: Zidane, un ritratto del XXI secolo
Un pregevole e riuscito tentativo di sovvertire le regole della grammatica visiva calcistica lo hanno messo in campo Douglas Gordon e Philippe Parreno nel film Zidane, un ritratto del XXI secolo.
L’opera è una sfida ai limiti anche tecnologici della visione: 24 macchine da presa seguono Ziendine Zidane durante una partita del campionato spagnolo, Real Madrid-Villareal, catturandone ogni singolo movimento da distanze di volta in volta diverse. Tutto il materiale viene poi montato creando una dialettica tra distanza, visione ed elemento sonoro (che alterna alla colonna sonora dei Mogwai i suoni ripresi live allo stadio: le voci della folla, ora confuse, ora distinte, i colpi del pallone, l’impressionante fruscio degli scarpini sull’erba) creando una straordinaria corrispondenza visiva del ruolo ricoperto dal giocatore franco-algerino sul campo.
Così come Zidane orchestra il gioco, smistandolo in veste di regista, allo stesso modo il suo corpo attrae e rilancia lo sguardo dello spettatore fino a raggiungere una dimensione universale.
Ne risulta un’opera potente e affascinante che libera la visione e il calcio dalle gabbie di una rappresentazione stereotipata per aprirsi a una dimensioni estetica che ricostruisce il nostro sguardo sul calcio a partire da parametri diversi da quelli a cui siamo abituati: la bellezza del gesto, l’intensità dei micro movimenti del volto, il ruolo del corpo e la psicologia del calciatore.
Nell’ambito del replay sarebbe interessante indagare l’apporto che il super slow-motion, introdotto da pochissimi anni, dà alle riprese televisive del calcio (e di altri sport in generale). Perché a me sembra che se da un lato ha un potenziale informativo notevolissimo e del tutto nuovo (soprattutto tecnico o tecnicistico, vd. tennis o pugilato), dall’altro ha un effetto emozionale che, se gestito con poca cura, è fine a se stesso e alle volte fastidioso. Il salto di un giocatore per colpire di testa una palla con relativa smorfia in super slowmo è pressoché inutile; l’approccio al rovescio a una mano di Federer se ripreso in super slowmo dà informazioni tecniche importanti (oltre a gasare un appassionato!)
Super slow motion, bella questione.
Allora, a me pare che tu abbia inquadrato bene la questione quando la ricomprendi tra l’esposizione dell’elemento emozionale e quella del gesto tecnico.
Soffermarsi sul gesto tecnico può essere utile oltre che spettacolare (si veda ad esempio questo video http://www.youtube.com/watch?v=aHrn3-Cb3iM&feature=youtu.be). Nel caso dell’elemento emozionale si dovrebbe sempre tenere conto del fatto che il linguaggio televisivo si basa su un principio di economicità e su una riduzione della complessità. Per questo può risultare fastidioso, un fastidio che nasce, secondo me, dall’effetto di ridondanza dato da questo tipo di riprese: sappiamo già che il calciatore è frustrato per aver sbagliato una rete, non abbiamo bisogno di apprenderlo tramite una ripresa rallentata che ne sottolinea ogni micromovimento (e su questo sarebbe molto interessante rilegger il Deleuze de L’immagine movimento e le sue pagine sul primo piano
Una delle poche cose belle di avere vissuto 10 anni in Inghilterra è stata la possibilità di guardare le partite di calcio sulla BBC. Per una questione di economicità del gusto – riscontrabile nel cinema proletario britannico – più che di economicità politica – riconducibile a scelte stilistiche à la Straub-Huillet o Fassbinder – la predilezione per il campo lungo, del riquadro all’interno del quale si svolgono sia l’azione che l’inazione, è imperante.
A differenza di BSkyB – e di Sky o della nuova Rai – che privilegia il movimento del pallone e i piani medi, ravvicinati o primi (presunti) spettacolari, su BBC, soprattutto nelle partite di FA Cup dove ci sono ancor meno mezzi tecnici, la fruizione è molto più godibile per lo spettatore.
Perché ti permette di seguire lo sviluppo armonico e corale del gioco, anche di quei giocatori lontani dalla palla, e apprezzare i c.d. movimenti senza palla appunto. Poi perché, da un punto di vista emozionale, è molto meno invasiva.
Senza scomodare Brecht, credo che il campo lungo sia ancora quello che permetta allo spettatore, se non di interagire di più, per lo meno di subire meno costrizioni. E in un certo senso di essere attivo, andando a cercarsi la porzione di inquadratura che più lo interessa e distaccandosi completamente dall’emotività imposta dalla scelta autoriale del regista.
P.S. Lo stesso, a proposito di suono – non di ciò che produce suono nell’immagine ma di sonoro in aggiunta all’immagine – si potrebbe dire delle telecronache calcistiche mitragliate, saccenti, nozionistiche e invasive, rispetto a un tranquillo e pacato accompagnamento, anche pieno di errori, che proprio per questo non impone un apprendimento coatto ma permette il dissenso.
Ma come e il fish&chips?!?
Scherzi a parte mi interessa molto questo tuo commento comparativo. So che non è facile ma potresti indicarmi qualche video della BBC?
È sicuramente vero che il campo lungo (e sopratutto il piano sequenza in profondità di campo) impone minori costrizioni allo spettatore ma al contempo sacrifica il potere narrativo del montaggio e questa, nella ripresa calcistica, è forse la sfida più grande: riuscire a raccontare il calcio in modi differenti.
Sugli stili di telecronaca sarebbe bello approfondire il discorso. Come te anche io apprezzo lo stile nordeuropeo (britannico e germanofono) piuttosto che quello di derivazione latina. Proprio perché lascia spazio sia alla visione sia all’espressione di un dissenso che, come dici efficacemente, “non impone un apprendimento coatto” (dei dati, delle situazioni, dell’informazione)
Credo che molti registi siano influenzati dal cinema. È evidente il voler riproporre quel tipo di linguaggio anche nel calcio. La partita è un racconto e lo sottolineano sia le inquadrature, sia il montaggio (spesso farlocco, vedi Germania – Italia con la donna in lacrime), sia e meno recentemente il commento. Personalmente preferisco il commento asciutto di un Pizzul piuttosto delle divagazioni extracalcistiche di Bizzotto, del finto “pathos” di Caressa (ai limiti del posticcio) o del tecnicismo di Piccinini.
Stessa cosa per quanto riguarda le immagini. Non dico di essere un nostalgico della vecchia “R” di replay, ma stiamo andando un po’ oltre…
Hai detto una cosa piuttosto interessante che ricorda molto l’uso che fa Marrone del concetto di kitsch in Estetica del telegiornale, ovvero che le regie televisive tentano di imitare, non riuscendovi, il linguaggio cinematografico e che questo tentativo produce effetti di senso involontari e, spesso, pacchiano.
Perciò penso che hai perfettamente ragione a porre l’attenzione su questo punto e sul fatto che l’effetto che ne deriva scada prontamente nel più trito dei cliché
Un interessante tentativo di narrazione calcistica alternativa è quello dei film ufficiali che la FIFA produce durante i campionati del mondo di calcio.
http://en.wikipedia.org/wiki/List_of_official_FIFA_World_Cup_films
Specie dagli anni Novanta la loro estetica si è fatta via via più ricercata e capace di seguire specifiche linee narrative, spesso estranee al semplice andamento della partita (The Grand Finale del Mondiale 2006 segue in gran parte lo svolgimento dell’ultimo atto della carriera di Zidane, “pedinandolo” sul campo).
Purtroppo su YT non ho trovato molti video dei film più recenti, ma già con Hero (Mexico ’86) si può notare la predilezione per i piani americani dei giocatori impegnati in azione, la voce di Michael Caine come voce narrante a connotare l’evento e l’uso di una colonna sonora mescolata ai rumori dei tifosi.
http://www.youtube.com/watch?v=vS-ufjGuO6k&feature=relmfu
Più recentemente si è passati all’uso dell’anamorfico nelle riprese, con numerosi inquadrature da bordo campo, a dare ancora maggior peso all’aspetto narrativo su quello descrittivo. Il tentativo è chiaramente quello di spostare lo spettatore dall’esterno (tv, tribuna, curva) a dentro la partita e le infinite dinamiche che la compongono.
Peccato che questi piccole perle siano praticamente ignorate dalle tv italiane, se non nei casi in cui a vincere sono gli Azzurri (la7 se non sbaglio aveva trasmesso The Grand Finale).
Un’altra considerazione a proposito delle panoramiche dall’alto, a volo d’uccello.
Credo si collochino in qualche modo nello stesso punto informativo che può avere il camera car nella F1 se si esclude da quest’ultimo l’aspetto emozionale legato alla semi-soggettiva.
Si tratta cioè di punti di vista che, se ben utilizzati, specie nei replay, potrebbero informare sugli aspetti più tecnici dell’incontro. Dall’alto è possibile vedere “respirare” l’intera organizzazione tattica di una squadra, i movimenti dei giocatori distanti dall’azione, gli inserimenti a vuoto, etc.
Così come un camera car mostra le sfumature nella guida di un pilota.
Peccato che, come sottolinei tu, venga spesso privilegiato un aspetto spettacolare del tipo “sempre più in alto” senza armonizzare l’inquadratura con le azioni.
[E una parentesi non indifferente meriterebbe, per questi ultimi europei, l’ossessiva e insopportabile ricerca dei tifosi sugli spalti durante le partite da parte della regia, che in alcune ha raggiunto picchi da birdwatchers.]
Davvero un post ricco di spunti questo.
Non so se sono d’accordo nell’accostamento che fai tra la ripresa della skycam e il camera car.
A me sembra che, invece, i due tipi di inquadratura siano piuttosto distanti ed esprimano bene la distanza individua da Marco Dinoi ne Lo sguardo e l’evento a proposito del giornalismo di guerra contemporaneo tra la ripresa embedded (installata nella soggettiva del giornalista) e le mappe/infografiche.
Laddove la prima veicola un massimo di trasparenza (vediamo il campo di battaglia in prima persona) e un minimo di opacità (non abbiamo a disposizione alcuna informazione riguardo il conflitto) e la seconda viceversa.
Si tratta di una dicotomia, quella tra sguardo soggettivo incorporato e sguardo totale/dall’alto scorporato (la skycam è del tutto simile ai droni militari), che è propria della cultura digitale e infatti i due poli rappresentano le principali convenzioni visive dei videogame (soggettiva e totale della mappa).
Insomma la soggettiva è un puro sguardo emozionale mentre il totale “a volo d’uccello” una ripresa che serve solo a esprimere un certo numero di informazioni…ciò non toglie che un buon regista potrebbe trovare modi efficaci di usarla (come ha fatto Herzog col 3d, per esempio).
Ottimo pezzo e interessanti pure i commenti. A cui vorrei solo aggiungere che lo slow motion può essere sì, come dice l’autore, fastidioso in quanto interrompe la narrazione di tipo “tecnica”. Ma non sono d’accordo sul fatto (almeno dal punto di vista dello spettatore televisivo) sul fatto che sia ridondante (o per lo meno sull’accezione negativa del termine) un’inquadratura in slow motion che ci mostri la fatica, la rabbia, le emozioni dei protagonisti. Giovanni Sartori affermava che la televisione fa crescere l’uomo ludens, e l’uomo ludens vuole vedere la tecnica, ma anche le emozioni sui volti dei protagonisti. Può piacere o no, ma i primi piani, lo slow motion riempiono una narrazione televisiva di 90 minuti (c’è pure il gossip dentro i 90 minuti di una partita quando inquadrano Shakira sugli spalti per vedere il ‘suo’ Piqué) per uno spettatore che oggi è abituato a film sempre più veloci in quanto a inquadrature.
Infine non si può non citare Roland Barthes che spiega magnificamente come nella lotta (e perché non oggi nel calcio) il fattore dello spettacolo sia importantissimo. C’è il cattivo (Balotelli), c’è il buono (Iker che dice all’arbitro di fischiare), c’è il brutto (Ribery)…metteteli in ordine (o cambiatene gli interpreti: in Spagna per esempio Messi è il buono, Ibra il brutto e Cristiano il cattivo) e otterrete il titolo di un noto film di Sergio Leone. Il pubblico parafrasando Barthes vuole l’immagine della gioia, non la gioia stessa. Quello che la televisione ha ottenuto con le decine di telecamere, i replay e gli slow motion è stato accentuare le simulazioni e porre l’accento sul personaggio più che sul giocatore. Il calcio in tv (media dello spettacolo per eccellenza) non è solo sport è spettacolo, commedia umana ricca di topoi e agli spettatori (volenti o nolenti) questo sembra piacere.
L’articolo è molto interessante e lucido, unico aspetto che mi pare sarebbe interessante approfondire è il rapporto che si instaura tra visione e ascolto, ovvero tra regia televisiva e telecronaca, perchè in realtà è la telecronaca a guidare costantemente lo sguardo. Non si tratta semplicemente di classificare i vari stili di telecronaca e gli stili di regia, si tratta di analizzare il loro rapporto. La voce è sovrana rispetto all’immagine ed è la principale fonte di distanza dalla reltà delle immagini percepite. Le rare volte in cui si assisteva a proiezioni di partite con giornalisti in sciopero erano esperienze decisamente più cinematografiche in cui le immagini e il sonoro divenivano uno spazio molto più concreto in cui organizzare il proprio sguardo. In questo senso una regia sobria (un lungo piano sequenza del totale) può richiamare Bazin e la profondità di campo come democrazia della visione ed esaltare le possibilità di interprete dello spettatore. Ma se il rapporto viene complicato con una telecronaca la lentezza della regia consegna lo spettatore ad una preponderanza totale della parola,trasformsndo la televisione in una sorta di radio illustrata . Il complicarsi della regia (più piani, più ralenti, più storie) è un tentativo di mantenere l’equilibrio tra visione e ascolto.