Qualche settimana fa, come spesso accade da quando lavoro come social media manager, stavo surfando (ehm) a grande velocità tra Facebook, Google+ e Twitter, quando, proprio su quest’ultimo, mi sono imbattuto nella fotografia che potete trovare qui sopra.
Tre uomini – vestiti con abbigliamento sportivo che definire vintage potrebbe essere azzardato e vecchio mi farebbe sentire tutto insieme il peso degli anni sul groppone, e che quindi mi limiterò a descrivere come demodé – camminano lungo una strada di cemento che sembra bagnata dalla pioggia. Quello più a sinistra dell’inquadratura guarda fisso davanti a sé, mentre quello al centro e quello a destra, come assorti nei loro pensieri, hanno lo sguardo fisso a terra.
I tre uomini nella fotografia sono, da sinistra a destra, Luis Enrique, José Mourinho e Pep Guardiola, rispettivamente gli allenatori dell’AS Roma, del Real Madrid e dell’FC Barcellona durante la stagione 2011/2012. Gli ultimi due, per la cronaca, sono anche gli allenatori europei più vincenti degli ultimi anni.
Nel suo celebre saggio dedicato alla fotografia, La camera chiara, Roland Barthes chiama punctum quella
“puntura, piccolo buco, macchiolina, piccolo taglio – e anche impresa aleatoria. Il punctum di una fotografia è quella fatalità che in essa mi punge (ma anche mi ferisce, mi ghermisce)”
e contrappone al punctum lo studium, una parola latina
“che non significa, per lo meno come prima accezione, «lo studio» bensì l’applicazione a una cosa, il gusto per qualcuno, una sorta d’interessamento”.
Rispetto allo studium, il punctum ha il potere di infrangerne l’unità, di fratturarne la superficie, di aprire l’immagine.
Nella foto capitatami sotto gli occhi su Twitter, lo studium è abbastanza chiaro, tre professionisti del Barcellona (due giocatori e un tradutor de futbol) camminano lungo una strada bagnata: una scena del tutto ordinaria, a guardarla distrattamente. In apparenza infatti non sembra esserci alcun punctum, nessun particolare in grado di pungere lo sguardo dello spettatore, nessuna fatalità in grado di fratturare l’immagine.
Eppure questa fatalità c’è, o meglio, essa affiora dalla foto grazie all’azione del tempo che ci separa dal momento in cui quella fotografia è stata scattata. Solo il tempo infatti può rendere pungente quel piccolo scudetto ricamato sul petto dei tre uomini: lo stemma del Barcellona. Solo le storie intrecciate di questi uomini conferiscono allo scatto il suo fascino e la sua bellezza, senza queste sarebbe rimasta solo un’altra delle molte fotografie perse nei meandri di un archivio senza più memoria. È una bellezza del tutto particolare, quella contenuta in questa foto del tutto banale, è la bellezza che solo il caso sa regalare, poiché in questo scatto, l’anonimo e inconsapevole fotografo, ha colto quello che si potrebbe definire uno dei momenti germinali del calcio contemporaneo. Al centro della foto José Mourinho, the special one, l’allenatore che negli ultimi dieci ha saputo vincere più di tutti gli altri. Cresciuto con Bobby Robson e Van Gaal nella scuola del Barcellona e approdato, dopo una luminosa carriera, alla corte degli eterni rivali del Real Madrid. Questo senza risparmiare attriti e critiche feroci con la squadra blaugrana. Mourinho, in questa foto che parla del tempo e rappresenta il tempo, è il passato, è qualcosa che è stato e non potrà più tornare senza portare con sé il peso di un’ossessione, quella della vittoria, che il mago di Setubal rincorre ancora dopo due anni in Spagna.
Pep Guardiola, l’uomo sulla destra, è invece il presente. L’attuale allenatore di quella che è considerata a ragione la migliore squadra di sempre, quel Barcellona capace di vincere campionati e coppe con una regolarità disarmante. Il Barcellona di Lionel Messi, il ventiquattrenne argentino che si candida a strappare al connazionale Maradona il titolo di giocatore più forte di sempre. Se Mourinho è il figliol prodigo, quello che sperpera in giro per il mondo la sua eredità, Guardiola è il figlio devoto, che copre di gloria la casa paterna, ma in fondo prova invidia per il fratello dissennato. Un’invidia che è, forse, figlia della paura di essere fagocitato dalla sua stessa creatura, di bruciare troppo in fretta e non essere in grado di sopravvivere alla forza del suo Barcellona, così come è successo al precedente allenatore dei blaugrana, Frank Rijkaard.
Infine, torniamo all’uomo sulla sinistra, Luis Enrique, passato nell’estate 2011 dal Barcellona B alla Roma. Il suo sguardo è rivolto al futuro che si apre in lui. Chiuso in patria dal fratello maggiore è costretto all’esilio, a dimostrare in una terra ostile e difficile il suo valore, a credere con ostinazione nelle sue convinzioni, con alle spalle più nulla e l’infinito della possibilità davanti agli occhi.
Questa è la storia che racconta l’anonima foto trovata su Twitter: al tempo stesso la storia di tre uomini con le loro ossessioni e i loro fantasmi, la storia del calcio com’è oggi, e la storia del farsi del tempo nel suo oscillare incessantemente tra il peso del passato, l’istante del presente e l’incertezza del futuro.