[Fabrizio Gabrielli, il maestro delle Sforbiciate (Piano B, 2011), ci regala un colpo dei suoi. Inedito.]
Mutumbula è una parola-tamburo-di-guerra, un intortuglio di viscere, un graffio nell’oscurità, l’orrore. L’orrore.
Mutumbula è un suono che suscita tremiti anche in sua assenza.
Mutumbula, in Bantu, significa assassino, e insieme a Volvo, incedere di jaggernaut scandinavo, era uno dei soprannomi di N’daye Mulamba.
Mulamba, nove reti nella Coppa d’Africa del 1974, quasi tutte quelle segnate dalla sua squadra, a remarkable man, era la punta di diamante dello Zaire che partecipò ai Mondiali di Germania quello stesso anno. Mulamba, contro la Yogoslavia, in un match terminato 9-0 per gli slavi, si fece espellere dopo ventidue minuti per un’entrata, come dire, mutatis mutandis, mutumbùlica.
Quello che a tutti sembrò, su due piedi prima, su uno soltanto dopo, l’altro tranciato di netto, un’esibizione di cialtroneria pallonara, di zumbabumbìsmo amatoriale, altro non era, al contrario, che un metaforico j’accuse. Gli zairesi avevano appena saputo che non avrebbero mai ricevuto sul conto corrente i quarantacinquemila dollari pattuiti come premio per la qualificazione alla competizione iridata. Sese Mobutu, quando si trattava di premiare, aveva delle idee particolari al riguardo. Se ti chiamavi Mobutu, bene. Altrimenti, insomma, ci siamo capiti. E c’eran rimasti male, gli zairesi. E quando ci si rimane male, giassài, è facile perdere la testa. Anche quello di Ilunga, il difensore immortalato nell’indelebile successione di fotogrammi in cui s’allontana dalla barriera per calciare lontano la palla posizionata per un tirolìbero avversario, nell’ultima sfida del girone preliminare, contro il Brasile, anche quello era un vivalparrochismo mica fine a se stesso, ma di protesta contro l’assenza, l’assenza dei dollaroni. Ilunga, in Bantu, dopotutto, significa colui che la prima volta subisce, la seconda tollera, ma la terza, eh, la terza ti rompe il culo, più o meno. Più o meno.
In quello Zaire giocava pure Mafuila Ricky Mavuba, il maghetto nero. Ricky tirava certe punizioni che te le raccomando. E i corner, poi, diovenescampiessalvi. Era il mago delle parabole, Ricky, che giocava coll’Association Sportif Vita, una delle tante compagini di Kinshasa fondate dai salesiani, che di parabole se ne intendevano, ed è stato il primo footballeur congolese a segnare da calcio d’angolo. E anche uno tra i primi a insegnare calcio in Angola, dove s’era rifugiato quando sul fiume Congo aveva cominciato a vedere venir giù cadaveri su cadaveri, non necessariamente dei nemici, come vorrebbe il motteggio zen.
Il sangue, che scorre lento e impassibile come i fiumi, non si lascia spaventare dai dirupi, né dalle cataratte. Rallenta il corso, abbandona il proprio letto per cercarne un altro, ma prima o poi, si rivoltasse il mondo, tranquillo che c’arriva sempre, in riva al mare. Foss’anche a Luanda.
Ricky, quando la guerra civile angolana iniziò a fare davvero paura, non ci pensò su neppure un attimo, s’imbarcò su una chiatta di fortuna con la moglie incinta, tragica Santa Famiglia che si rinnova, e salpò verso le coste francesi. Erano al largo di Cabinda, non troppo lontano dalle rive ove il corpo di Ricky fanciulletto giacque, quando sopraggiunsero le prime doglie, i dolori nel dolore, le acque nelle acque, e d’improvviso un figlio, un figlio nato in mare, nessuno ius solis, quale futuro se a malapena un presente. E un nome da dargli, ma che fosse evocativo.
Quale nome per qualcuno nato in mare, se non il nome che generalmente si da alle cose che in mare muoiono?
E così sia, allora, orsacchiotto mio, ti chiamerò Rio, fiume.
Rio Mavuba, oggi, ha ventotto anni, da otto è francese, per i precedenti venti: apolide. Né en mer, porta scritto sul passaporto. Come T.D. Lemon Novecento. Rio Mavuba è uno dei novecento e più giocatori che hanno indossato, negli ultimi anni, la maglia della Francia blanc black et beur, nonostante Blanc abbia provato a renderla un po’ più blanc, con le sue idee lepeniane sulle quote fisse di calciatori black et beur, ça va sans dire, ché la cultura la storia le tradizioni andranno pur salvaguardate, dannazione.
Nonostante questo Rio Mavuba ce l’ha fatta, a infilare la capigliatura stramba nel colletto di quella maglia, aveva una storia sensazionale da regalare agli annali, dopotutto, anche se poi, alla fine della fiera, nella selezione transalpina che affronterà gli Europei di Polonia e Ucraina, esordio stasera, a Donetsk, contro l’Inghilterra, Rio Mavuba, ecco: non ci sarà.
Pensavo, pensavo ieri l’altro, che sarebbe stato bello se prima del fischio d’inizio, calma e gesso, gesso e calma, sulle rive del fiume Kalmius, nella cità di Donetsk, nell’annunciare le formazioni iniziali dei Leoni albionici e dei Galletti franzési, lo speaker avesse snocciolato, col suo accento ucraino, il nome Rio non una, ma due volte, una per parte: maglia numero otto, per la Francia, Rio Mavuba. Maglia numero cinque, per l’Inghilterra, Rio Ferdinand.
La parola rio, se la pronunci arrotando la fricativa all’eccesso, con grand’abbondanza di qualsivoglia umore scorrente, puoi vederla incupirsi, farsi viscosa, fanghescente, trasformarsi da rivolo a ruscello a fiume dalle acque tracotanti e malvagie.
Fosse stata, stasera, la Donbass Arena di Donetsk, un Rìodromo in cui, calma e gesso, gesso e calma, sulle rive del fiume Kalmius, i due Rio avessero avuto la possibilità di erigersi a argini difensivi contrapposti, argani a motore tre velocità, ognuno dei due pronto a dare tutto per trascinare dalla sua parte del fiume la vittoria, probabilmente avremmo assistito a una di quelle esondazioni di malizia che la parola rio trascina connaturate in sé. Le nere pelli dei calciatori, stai a vedere, sarebbero state accolte dai ringhi furiosi della tifoseria di casa, bomba a orologeria che tra un tic e un tac minaccia d’esplodere in una possente deflagrazione di neonazismo latente, che poi latente, neppure troppo, proprio durante questi Europei.
Polonia e Ucraina si distinguono per essere, oggi, nel Vecchio Continente, i paesi che più soffrono di riflussi gastrici neofascisti, e se a ciò s’aggiunge che financo un personaggio del carisma di Oleg Blokhin, leggendario centrocampista dell’Unione Sovietica nei primi Anni Ottanta, oggi coriaceo trainer della selezione di casa, si abbandoni a invettive non propriamente, come dire, ecumeniche, vedrai che i presupposti per sentirsi in balia della corrente del fiume laddove si fa più impetuosa, ci son tutti. “Ovvio che i giovani calciatori ucraini non abbiano esempi da seguire. Dategli un Blokhin, dategli uno Shevchenko, non quei zumba-bumba che tiran giù dagli alberi, gli danno due banane e li portano a giocare nel campionato ucraino”, ha detto riferendosi al fatto che nello Shaktar Donetsk militino otto brasiliani e un nigeriano.
Vada come vada, stasera Rio Mavuba non sarà della partita, né troneggerà al centro della difesa albionica Rio Ferdinand, anche se con la sua esclusione dalla rosa sembra entraci comunque il razzismo, in una maniera o nell’altra (altrimenti quale sarebbe il motivo?).
E allora i riottosi spettatori ucraini dovranno trovarsi altri zumbabùmba contro cui inveire, i genitori di Theo Walcott e Oxlade-Chamberlain scuoteranno la testa da casa, di fronte alla tivvù, è vero, ma è così che gira, amici miei, e non servirà a niente, stavolta, calciare punizioni che non vi spettano, né farvi espellere a partita appena iniziata.
Fate in modo di vivervela nonscialanti, amici Rio: coniugate alla prima persona il verbo ispagnuolo reír, ridere, e fatevi fiume, indifferenti, paciosi, lasciate che tutto scorra.
Ché alla fine Panta rei, Rio.
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