[Riceviamo e pubblichiamo gli appunti che seguono da Gabriele Venditti, direttore della Biblioteca Michele Romano di Isernia.]
«Italia piccola e triste, carica di monumenti in redingote, nella cui capitale il gioco del calcio, italianissimo, dovevano essere i primi a giocarlo, con gran fuga di bambinaie e contravvenzioni di guardie municipali, i seminaristi inglesi, nei prati di Villa Borghese» (O. Vergani, 1928)
Quando Vergani nella prefazione di Vita al Sole di De Marchi ci consegna il bozzetto di una Villa Borghese messa a soqquadro dalle tonache svolazzanti di albionici chierici albini che inseguono la palla come in una fotografia di Giacomelli, ci sta in realtà traviando l’immaginario consegnandoci una fotografia di primo Novecento, giacché alla fine degli anni Venti l’italianissimo, e quindi fascistissimo, gioco del calcio non è più bizzarro passatempo per seminaristi inglesi, quanto passione matura e popolare, che si gioca negli stadi e si legge sui giornali.
Nel calcio, il Fascismo c’è già entrato prepotente così come ha, del resto, fatto in tutti gli altri ambiti della società italiana, dalla radiodiffusione all’uncinetto. Si comincia nel 1926, a (meno di) quattro anni dalla Marcia su Roma – nota manifestazione podistica dagli sviluppi infausti per il Paese. A quella data, la squadra in nero è già pesantemente intervenuta in tackle sulle deboli caviglie dello Stato liberale. La società italiana si è già fascistizzata, mostrandosi – salvo i pochi noti – felicemente conquistata dai nuovi istituti introdotti dal Regime: l’omicidio di Stato, come continuazione della politica con altri mezzi (Giacomo Matteotti, ucciso nel giugno del ’24); la soppressione della libertà di stampa; lo scioglimento dei sindacati; la mortificazione del Parlamento e dell’idea democratica di rappresentatività; la creazione del Tribunale speciale per la sicurezza dello Stato, giudice inappellabile chiamato a sanzionare ciò che si è, non ciò che si è fatto.
Se il Fascismo si immischia di calcio lo fa – oltre che per l’horror vacui tipico delle dittature – perché, lungimirante, comprende che la fascinazione popolare per il calcio può essere usata a scopo di propaganda, come collante del consenso al Regime. Il calcio crea identità, unisce individui. Le vittorie della squadra, sono la vittoria del Paese. Le sconfitte della squadra, non esistono. Sulle maglie attillate dei campioni, accanto al tricolore sabaudo compare immancabile il fascio littorio. La cosa, del resto, funziona bene con tutti gli sport. Nel bene come nel male, il Regime s’identifica con i suoi figli sudati: i Mussolini boys alle Olimpiadi californiane del ’32; il gigante Carnera, del quale non si pubblicano foto da sconfitto.
Dal punto di vista del potere, il calcio è la più abbordabile delle droghe, è oppio dei popoli, acquavite dello spirito: distrae chi potrebbe magari decidere di orientare altrove le sue energie da ultras. Già: poiché il calcio, su cui ogni discorso non può non farsi carico delle mille contraddizioni, – oltre che unire – divide, separando in tifoserie. Allora immischiarsene può significa controllare la valvola di sfogo del conflitto sociale, comunque esistente in una società irreggimentata. Il monopolio della violenza, del resto, deve rimanere allo Stato-partito. Per dire: nel 1925, alla stazione di Torino Porta Nuova, dopo l’ennesimo spareggio per lo scudetto, tifosi bolognesi prendono a pistolettate i pari del Genoa. Se non ci scappano i morti, è solo per fortuna. Ma poiché c’è contiguità tra squadra e squadraccia, l’inchiesta viene archiviata contro ignoti. Non è successo nulla. Miccette.
Il documento programmatico con cui si interviene a riformare il calcio italiano è la Carta di Viareggio, parto rapido di un triumvirato di tecnici fedelissimi al Regime, che viene adottato dal Comitato Olimpico Italiano – si è detto – nell’agosto del 1926. S’introducono regole che sono calco, anche stupito e innecessario, dei fondamenti mistici del Fascismo. Per dire, quella stessa sprezzante considerazione mostrata verso tutti gli istituti della rappresentatività democratica – e che altrove porta, per es., i podestà a sostituirsi ai sindaci, il Parlamento a evaporare – determinerà la designazione dall’alto, e a tempo indeterminato, per tutte quelle cariche federali che precedentemente erano elettive e determinate circa la durata. Così come, ispirato al più becero nazionalismo – l’Italia agli italiani – è il divieto di tesseramento di giocatori stranieri, che diviene operativo dal campionato 1928-29; non uno scherzetto: le società iscritte ai due gironi del campionato italiano 1926-27 hanno, tutte insieme, quasi un centinaio di portieri, terzini, centromediani e attaccanti che vengono per lo più dalla Mitteleuropa. Esodati. Senza più ungheresi e austriaci – la “Scuola danubiana” allora per la maggiore – i vertici del calcio italiano dovranno ricorrere alla formula paracula dell’oriundo che salvando la purezza del sangue italiano, porta campioni sudamericani a vestire financo la maglia azzurra.
La Carta tenta di porre ordine e disciplina anche nella formula del campionato, che risulta alquanto caotica, e ha visto nel corso degli anni alternarsi gironi interlocutori su base regionale, spareggi, ripescaggi, salti e capriole; finanche una scissione di club ribelli che ha portato ad un doppio campionato nazionale (1921-22). In più, c’è il problema di un campionato da sempre sbilanciato a vantaggio delle élite del calcio settentrionale contro le arrangiate schiere romano-napoletane della Lega sud, nella quale militano le mediocri squadre romane (altro che Roma doma). Il campionato va quindi riformato obliterando formule divisionali su base regionalistica – che cozzano con l’idea fascista di Patria una e indivisibile – e nel contempo va ridimensionata la schiacciante superiorità delle squadre del nord, disegnando una nuova Divisione Nazionale nella quale i posti vengano attribuiti tenendo conto anche delle esigenze politiche: per es. una Trieste italiana, dopo il 1918, impone una Triestina in massima divisione. La formula tracciata in Versilia – divisione unica organizzata su due gironi, con successivo torneo ristretto ai primi tre di ciascun girone – durerà per tre campionati, ma aprirà al girone unico nazionale di tipo inglese del primo campionato davvero unitario, quello del 1929-30 (la prima Serie A).
Passare da quasi un centinaio di iscritti – molti con dimensione di club di quartiere – ai pochi posti nel nuovo girone determinerà una serie di fusioni societarie operate d’ufficio, spesso inaudita altera pars. Difficile per una stessa città, mantenere più squadre. Nascono così club moderni – la Fiorentina, la Roma – o fossili come l’Ambrosiana, la cui vicenda è emblematica e va raccontata. L’Internazionale – l’Inter – è una blasonata squadra milanese, che nel ’27 ha già vinto due titoli nazionali e diversi piazzamenti; meno brillante è l’Unione Sportiva Milanese, che però ha come presidente una ambiziosa camicia nera, Ernesto Torrusio, salita su da Salerno a conquistarsi cariche e prebende; per inciso, Torrusio è vice podestà di Milano e segretario dell’Ente Sportivo Provinciale Fascista (E.S.P.F.), di cui è presidente il federale della città, Rino Parenti, suo sodale. Va detto che l’E.S.P.F. è l’organo destinato ad attuare, in periferia, le direttive della Carta di Viareggio, compiendo la semplificazione del numero dei club chiamati a giocare nella massima serie. Torrusio, così, si prende l’Inter con un golpe: si presenta ai vertici nerazzurri – fascistissimi pure loro, ma meno sgamati – con la nomina a dirigente della nuova società Ambrosiana, firmata da sé stesso in qualità di segretario dell’E.S.P.F.. La cosa, va da sé, non viene rilevata in anni in cui il conflitto di interessi è cosa esotica quanto l’ananasso.
Alla semplificazione resistono, invece, i due club torinesi, protagonisti, nel 1928, del primo scandalo del calcio italiano. È l’affaire Allemandi, che vede un terzino della Juventus avvicinato da emissari granata perché sia indulgente, lasciando filtrare qualche pallone in più, assicurando al Torino il risultato nel derby, utile allo scudetto. È il 5 giugno 1927 e il pretium sceleris è di 50.000 lire, che vanno versate per metà all’inizio e per metà a fine gara. Il Torino vince per 2-1 – e conquista lo scudetto davanti al Bologna – tieni a mente – ma Allemandi ha fatto così bene il suo lavoro da essere stato il migliore in campo e i corruttori non gli versano la seconda tranche. Pazienza. A distanza di un anno, voci del fattaccio arrivano alle orecchie di Leandro Arpinati, a un tempo presidente Federcalcio e – qui casca l’asino – podestà di Bologna. Ne segue una pilotatissima inquisizione, compiuta dallo stesso Allemandi, che porterà alla revoca dello scudetto ai granata ma non alla sperata assegnazione al Bologna che-tremare-il-mondo-fa, pare per intervento dello stesso Duce, preoccupato della possibile perdita di credibilità degli organi di governo del calcio. Si dirà pure – e qui la dietrologia assume i connotati tipici delle vicende italiane – che il buon Allemandi – squalificato a vita, poi amnistiato – fu comodo fesso su cui far ricadere tutta la colpa, che andava invece distribuita anche su altri non sputtanabili uomini-nazionale.
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Non hai/avete idea del gravoso compito sociale cui adempi/adempite con questo blog. Ho cercato per anni, invano, una roba del genere, sbattendo contro il nulla.
Grazie!
Su Arpinati ci sarebbe altro da dire: ad esempio come il Bologna vinse lo scudetto del 1925… Gran bel post, grazie per questo fantastico blog!
Grazie a voi per i commenti. Cerchiamo di scovare storie interessanti e, per fortuna, siamo tanti e conosciamo un po’ di gente praticamente dappertutto. Sappiate che il nostro Mister ha modificato i “sei gradi di separazione” nel più pratico “un grado di separazione” apposta per Futbologia.
Ottimo post. Giusto che anche sul web si ripristini la verità storica sui fatti della stazione di Torino del 1925, completamente rivoltati, come la più indigesta delle frittate, dall’esimio (ehm) Curzio Maltese in un suo editoriale su qualche supplemento di Repubblica: secondo l’illustre (ehm ehm) opinionista, erano stati i genoani a prendere a pistolettate i bolognesi. L’avevo fatto notare sul mio blog, ma è bene che voci più autorevoli e seguite precisino bene come andarono le cose.
Su calcio e fascismo ce ne sarebbero di cose da dire, anche politicamente scorrette: ossia che del ventennio si può, anzi si deve dire tutto il male possibile, ma che fra le poche cose buone fatte in quella sventurata epoca storica ci fu l’organizzazione del calcio a livelli professionali e professionistici, dal piano logistico a quello più prettamente tecnico. Senza gli sforzi fatti all’epoca in quel settore, il football italiano avrebbe impiegato molto più tempo a spiccare il volo. Che poi tali sforzi siano stati fatti in buona parte anche per scopi “sinistri” è purtroppo caratteristica comune a tutte le dittature.