[Fabrizio Gabrielli, il maestro delle Sforbiciate (Piano B, 2011), ci regala un altro colpo dei suoi. Inedito.]
Il primo grande insegnamento che m’hai dato, pà, è che non serve a niente, pigiare forte sull’acceleratore, quando hai il freno a mano tirato.
Dovevi volermi molto molto bene, o molto molto male, per tacermi che non era una grande idea, presentarsi con la stessa mise della cresima, Camicia Rosé Damascata, sottomento da orsacchiotto spelacchiato, a bordo d’un carro da mozzarellaro.
Ma tu avevi dimenticato la bènza, son cose che capitano, m’hai detto, non il giorno del mio esame di quinta, pà. E allora ci siam fatti prestare l’auto che il pizzicagnolo utilizzava per le consegne, e per quindici chilometri c’abbiam messo un’ora, che correva mica, la mozzarellamòbile, e le spighe pronte per la trebbiatura, anziché farsi massa confusa e fagocitante fuori dal finestrino, se ne rimanevano a umiliarci, con gli occhi di ghiaccio di Lars Bohinen quando l’ha buttata dentro, buttandoci fuori.
E così siamo arrivati in ritardo. E c’era puzza di bruciato, nell’abitacolo. Il freno a mano, pà. Son cose che capitano, m’hai detto.
Il giorno del mio esame di quinta elementare ho pianto forte, chissà se te lo ricordi, perché sei mesi per ridisegnare la storia e la geografia, anche quelle del pallone, non sono abbastanza, quando hai solo dieci anni. Di cosa parliamo?, m’han chiesto, dell’Unione Sovietica, ho risposto, anche se l’Unione Sovietica non c’era già più, e dovevo avere uno sguardo spaurito, pà, mentre i maestri eran tutti ehmmapèrò, spaurito come quello di Sergej Yuran con la maglia smorta della Cièsseì nelle figurine di quell’Europeo, anche se nell’album poi il nome di quella nazionale era S.N.G., che cosa significasse, poi, l’abbiamo mica mai capito, pà, neppure tu, che pure ti credevo onnisciente, infallibile.
L’estate del novantadue è stata l’estate più orrenda della mia pischellitudine, pà, quella in cui sei riuscito a farmi puzzare, in un solo giorno, di mozzarella e di sconfitta, quella in cui mi sono innamorato perdutamente della ragazzetta dell’animazione che aveva quasi il doppio della mia età, quella in cui ho smesso di credere alle favole, e ho pianto tanto che come me, forse, solo i giocatori della Yugoslavia quando capitan Stojkovic è entrato nello spogliatoio per singhiozzare che no, compagni amatissimi, questo Europeo non lo giocheremo, ce ne torniamo a casa, anche se una casa non ce l’abbiamo, in mezzo ai nostri amici, anche se amici, probabilmente, con la guerra, ne avremo sempre meno.
Quel giugno ho imparato a pronunciare i dittonghi scandinavi in Sivebaek e Toerben, e e o cavernose, scontrose come i ragazzini feriti nel profondo, Toerben che era il nome di battesimo di Piechnik, che tu pronunciavi pic-nic, ogni volta che lo leggevi nella formazione a inizio partita, in uno slancio di mattacchioneria irrichiesta, sempre uguale a se stessa.
C’era molta danimarchitùdine, in me, in noi, quell’estate là: eravamo preparati a tutto e al contempo pronti a nulla, un’armata brancaleone che sprizzava empatia e vivalparrochismo, vada come deve andare, al massimo ci facciamo due risate.
Ridere ridevamo, quando neniavamo lo schieramento di quella compagine strampalata, quasi quanto nojaltri due, che principiava con una contrazione mascellare, Schmeichel, scivolando poi in una mitragliata di sèn, Olsen Andersen Povlsen Christensen Jensen, intervallata solo dall’inceppamento di pistoni d’un Christofte, dalla perentorietà d’un’ossimoro che ci rappresentava, così vili e a un tempo forti nojaltri: Vilfort.
E le abbiam guardate tutte, le partite di quella Danimarca, esaltandoci, tornando a crederci un po’ di più, alle favole, segnando sulla tacca della pistola, via via, l’eliminazione dei Papin, dei Platt, della favoritissima Olanda ai rigori, in semifinale, fino alla partita conclusiva, quella dall’esito scontato, sulla carta, quella contro una Germania che non era più Ovest o Est, ma Germania, e punto.
Com’è difficile la geografia, pà, strana la storia, e le storie, che ti sembra impossibile che certe cose possano accadere davvero, arrivare con un ora di ritardo a un esame e sentirsi il cuore sfarfallarti in petto, impossibile, fin quando poi un muro crolla, e poi un altro, una bandiera viene eretta, un Lituano non è più sovietico, un bosniaco non più Yugoslavo, io e te non più padre e figlio, ma squadra, una squadra che parte cogli sfavori dei pronostici e nondimeno trionfa, e a segnare la rete decisiva è un uomo la cui figlia – la tua stessa età, mi dicevi – la sera tardi, era la morte, e non il papà, a cullarla.
Mi hai insegnato, pà, quell’estate di vent’anni fa, che pigiare forte sull’acceleratore, quando hai il freno a mano innescato, non serve a niente.
Perché per il successo, vedi: devi essere tagliato. E l’entusiasmo, per quanto inebriante, è effimero.
Col senno di poi non è stata una buona idea suggellare quella simbiosi pallonara con la promessa che vedrai quante soddisfazioni ci prenderemo, l’anno prossimo, che pure noi andiamo a vincere.
E no, neppure uscire tardissimo, dopo aver visto Olsen sollevare la coppa, per cercare la ragazzetta a cui avrei dovuto confessare, senza temer figuracce, quanto la amassi.
Perché per trovarla l’abbiam trovata, in spiaggia, ma si lamentava gran tanto, doveva stare proprio male, per come miagolava in controluce tra le braci d’un falò, e me lo ricordo bene, quel che m’hai detto, figlio mio, le favole, tieni bene a mente, non sempre son favole.