[Siamo fieri di presentare ai nostri tifosi il primo grande colpo sul mercato di Fútbologia: Vanni Santoni e Matteo Salimbeni. Ecco “L’articolo del secondo giornalista sportivo di una volta” da L’ascensione di Roberto Baggio]
di Matteo Salimbeni e Vanni Santoni
C’è chi sostiene che esista una distribuzione dei poteri fra i numeri del calcio. Che una gerarchia, fondata sulle leggi del numero, governi lo svolgimento della partita, dello spogliatoio, delle tribune, allo stesso modo in cui gli astri governano il corso delle maree e degli umori terrestri. Costoro affermano che, sempre nel mondo delle idee del calcio, sorgerebbe una piramide sacra. Una piramide sulla cui vetta sta in prodigioso bilico una cifra dominante, mentre sotto, via via degradando sui fianchi, si assiepano tutte le altre cittadinanze numeriche: i conti, gli zii, i capitani e gli imperatori decaduti del calcio. Per quanto teorie come queste siano lontane dall’affermazione nella filosofia calcistica e per quanto stentino a trovare un riscontro effettivo nelle dinamiche tattico-agonistiche, esse posseggono un merito. Se ripulite dal loro aspetto cabalistico, teorie simili ci ricordano una cosa semplice. Un punto essenziale. Che nel calcio, oltre agli uomini, oltre la palla, oltre ai pali e gli scarpini, contano anche i numeri di maglia. Non servono a cambiare gli equilibri in campo. Non smobilitano le difese, né vi erigono muri davanti. Non proteggono, né sfondano la rete. Non vincono campionati o coppe. Ma sono una componente fondamentale nell’immaginario del calcio.
Fra tutti i numeri di maglia che sono sopravvissuti all’epoca delle liberalizzazioni selvagge, all’avvento dei 99, dei 9+1, degli 00, dei nomi e dei soprannomi sulla schiena, ce n’è uno che ha mantenuto immutato il suo valore. Il 10 rimane il più evocativo, composito e intrigante numero che abbia calcato un campo da calcio. Nessun altra cifra è capace di sollevare quelle folle, di suscitare quei ricordi, di mettere in circolo i paragoni e le analogie che caratterizzano il marchio destinato ai registi e ai fantasisti. Dalla scoperta del fantasista, e cioè da circa una cinquantina di anni, quel ruolo è destinato al numero dieci. Egli può, in effetti, scegliere se ritagliarsi una vita da fantasista o regista. Se essere sregolatezza allo stato puro, poesia, costrutto divino, o se mantenersi nei limiti di una estroversione rigorosa e intraprendente; se essere un’eccezione alla regola o una folgorante interpretazione delle regole. Qualunque sia la strada che intraprenda, egli dovrà essere consapevole della responsabilità cui va incontro. L’aspetto ereditario del numero dieci, essendo un caso unico nella storia del calcio, aggiunge responsabilità alle responsabilità. I paragoni fioccano abbondanti. L’aspettativa si accresce. Le critiche sono sempre dietro l’angolo. Apologia e derisione si alternano con una tempistica allucinatoria. Essere un numero dieci non è facile. Anche chi non lo porta è talvolta sequestrato dal vortice delle illazioni. Perché potrebbe esserlo. Perché, alla fin fine, ci assomiglia. “Ma guarda che bel dieci sarebbe quello”, “Ma perché non lo mette dietro le punte?” sono frasi all’ordine del giorno.
Era il 1962 circa. Giovanni Rivera aveva ventun anni e da due era in forza al Milan. I rossoneri erano allenati da Nereo Rocco e sotto la sua guida convivevano Prati, Hamrin, Maldini, Altafini e Trapattoni. Come si conviene ai grandi avvenimenti storici, collochiamo in questa data la nascita del fantasista. Non la sua invenzione, ma la sua emersione, scoperta e formalizzazione. Da allora, che si parli di Milan, Juve, Napoli, Treviso o Solbiatese Arno, il fantasista comincia a rivestire un’importanza che nessun altro numero prima di allora aveva avuto: né l’inequivocabile numero uno; né il travolgente contrattacco, quel marcantonio del numero nove. Il dieci diventa un’eccellenza.
Il regista può portare il dieci, ma lo si digerisce anche col sei, col ventuno, col trenta. Può chiamarsi Pirlo. Può chiamarsi Passarella. Il fantasista no. Deve stare dietro le punte, un po’ più a lato, al vertice dell’albero, può scomparire, far la mezzala, guizzare, immobilizzarsi. Può stare dove vuole, ma deve avere il numero dieci. Inoltre deve possedere dei requisiti, alcune caratteristiche che lo differenzino dai compagni. Queste caratteristiche sono inenunciabili. Sono doti, più che qualità. Vanno oltre l’aspetto tecnico. Fanno parte del carattere, dello spirito, dell’immagine. Al di là di molti generici “avere i piedi buoni”, “avere classe”, “avere visione di gioco”, “avere intuito”, non è possibile alcuna classificazione. Questo perché ogni numero dieci è un discorso a parte.
Indossare la maglia numero dieci è una questione di identità. Chiunque indossi quella maglia dovrà confrontarsi con una genealogia talmente radicata e ramificata che il solo modo per uscirne con le gambe intatte è inventarsi un modo geniale – un modo unico – di essere numero dieci. Cosa che, a veder bene, non è richiesta agli altri numeri del calcio. Una volta indossata la maglia numero dieci non si può continuare a vagare per il campo come un numero qualsiasi. Hai occhi puntati e attenzioni, fiato sul collo, bisbigli nei timpani, aspettative; un’eredità schiacciante ti perseguita a ogni passaggio. Quel numero è come un indumento che non viene lavato da anni: cammina per conto suo. Tu devi riempirlo. Altrimenti continua per la sua strada, attende il prossimo e via. Su questo numero che ti si concede tu devi compiere un lavoro arduo e raffinato. Comandarlo con il tuo stile e abbandonarti a esso. Versare dentro di lui i tuoi sapori e le tue intemperanze e allo stesso tempo condurlo. Accettarlo e farti accettare.
Tutto questo a un patto: a patto di essere un numero dieci. Ed ecco un altro grande paradosso, che consegneremo ad altri, agli amanti dell’ontologia del calcio: tu puoi indossare la maglia numero dieci, impossessarti del numero dieci, sempre a patto che tu sia già un numero dieci. Non puoi intuirlo, impararlo, capirlo, meritarlo. Devi esserlo. Per esserlo devi diventarlo e per diventarlo devi esserlo. Non è una cosa di cui si può fornire una definizione univoca, perciò mi limiterò a illustrare alcuni numeri dieci dei quali si può affermare senza ombra di dubbio che sono stati dei veri numeri dieci. Non è una lista né un catalogo, e non è una classifica. Serve più a suscitare un’immagine che a confermare un’idea. L’immagine di un numero che è, prima di tutto, prima ancora di essere un numero, un sigillo. Proviamo quindi ad arrivare a Baggio partendo dagli altri numeri dieci, partendo magari da colui che per primo nobilitò quella stessa casacca viola marcata “10”, la quale sancì l’inizio dell’epopea di Roberto Baggio.
Giancarlo Antognoni: il Signore dalla Sfera di Cuoio. Il numero dieci pitagorico. È l’intera tabellina tattica del due, allo stesso tempo un quattro, un otto, un dieci. I suoi lanci sono un perfetto esempio di geometria applicata, i suoi gol un connubio fra le potenze delle natura e le arti umanistiche. Al numero dieci offre l’eleganza del baronetto, la prestanza del puledro e un tocco di romantica sventura. Un colpo alla testa lo costringe a lottare fra la vita e la morte, e a perdere uno scudetto; un infortunio lo costringe a saltare la finale dei mondiali di Spagna. Uomo squadra, fantasista per diritto, regista di fatto, goleador mancato, gioca osservando il cielo stellato sopra di lui.
Se Antognoni vestì quella casacca prima di Baggio, qualcuno la vestì dopo: ricordate Rui Costa? Il numero dieci della pietà e dell’impalpabilità poetica? Il marcatore superfluo, il fantasista recessivo, l’uomo del gesto mancato. Il numero dieci raramente o segretamente determinante ai fini del risultato. Il Cyrano del gol. I suoi assist sono, prima ancora che un’illuminazione, una richiesta di aiuto. Una supplica lanciata al compagno. Segnalo tu, ti prego. Sotto l’uno e lo zero del fantasista, batte un cuore sanguinante. Rui erede di Baggio? Suona male, nonostante le doti del portoghese. Eppure lo abbiamo visto, il 10 è anche una questione ereditaria. Passiamo allora a colui la cui eredità bianconera ci si aspettava venisse raccolta proprio da Baggio.
Platini: il numero dieci strutturalista. Le varie parti compongono un tutto di bellezza impeccabile: quel tutto è la più limpida raffigurazione del genio che si possa immaginare. Ma è anche laido, astuto, sfrontato, proprio perché genio. Se scomponiamo Michael Platini, vedremo che egli ha tutto del dieci: ne ha l’eleganza, il carattere, la classe, i numeri. E ha anche tutto dello stile della squadra in cui ha militato, la Juventus. Un giorno l’Avvocato, assistendo all’allenamento alle punizioni di Platini, si lamentò che non le tirasse da più lontano, e che non usasse le sagome. Platini tacque, poi, quando Agnelli stava per uscire dal campo dallo stretto cancellino laterale, distante una cinquantina di metri, tirò una bomba che superò il patron da sopra la spalla e andò a infilarsi nel cancello. Ve lo immaginate Baggio che fa una cosa del genere?
Se Baggio doveva raccogliere l’eredità di Platini nella Juve, Totti doveva raccogliere quella di Baggio in azzurro. Totti, il numero X romano. Il numero dieci che sa giocare come trequartista, come seconda punta, come numero nove, ma rimane sempre numero dieci. Disteso sull’enorme triclinio dello stadio Olimpico, conforta e fa gonfiare il petto al pubblico, con la sua romanità e le sue performance, col lancio di prima e col colpo di tacco. I suoi assist sono un richiamo cameratesco: “e pijate ‘sta palla, mo’ vediamo se segni, e ggrande Vince’.” I suoi tiri al volo, i cucchiai, i pallonetti, prima di essere gol, sono uno boccaccia, uno sberleffo, un inno all’orgoglio.
Ma torniamo in bianconero, prendiamo Zidane, il numero dieci disorganico e meticcio. L’altro grande genio francese, così diverso da Platini, eppure suo erede, saltando a piè pari proprio Roberto Baggio. Il suo numero dieci è una patria interrazziale. Egli è un rivoltoso taciturno. Caso unico di completezza tecnico-tattico-fisica – precisione, tiro, lancio, colpo di testa, possesso palla, visione di gioco, stazza, corsa, posizione – vince di tutto. Palloni d’oro, coppe del mondo, campionati. Vince anche la bruttezza, infondendo in un corpo di bestia la grazia di una bella. I suoi assist sono di una precisione stupefacente, sono cristalli di luce. Con la famigerata testata a Materazzi, infine, supera se stesso e il senso comune. Per una volta l’umano troppo umano dice no ed entra nella storia. E allora entriamo anche noi, per un attimo, nella storia: pensiamo a quei due, ai più grandi.
Pelé: il numero dieci antropologico. È fin troppo facile: Pelé è il genio nero in bianco e nero, il seme della mitologia verdeoro, il disco dal quale si dipanano i fili e i raggi delle generazioni a venire, il padre fondatore e l’eterna pietra di paragone. I suoi assist sono una sconfitta personale – per una volta non sono riuscito a segnare! – i suoi gesti sono secchi ed eleganti, nascono già scolpiti nella storia del calcio. È una punta, come negarlo, ma per classe, nobiltà e straripante potenza non può che appropriarsi anche del 10.
E Maradona? Maradona, l’insuperabile. Il numero dieci per eccellenza ed eccedenza. Paradigma del genio e pirata della vittoria. Egli è l’eccesso trionfante esultante dilagante, il cuore di una città e di una nazione. Diventa mito, religione dell’umano. Diventa napoletano, più acclamato di San Gennaro. Impertinente all’inverosimile, ogni gesto lo rappresenta e rappresenta il numero dieci. I suoi assist sono gesti di una sfrontatezza inaudita, verso avversari, compagni e destino. Agli avversari dimostra la propria superiorità; ai compagni rammenta l’impossibilità di rubargli il palcoscenico, sia pure con i gol; al destino lancia una sfida, dimostrando che può fare di tutto, ma proprio tutto: persino essere generoso.
Il numero dieci calza su Maradona come un guanto sulla mano, ancora più che al prototipo: Gianni Rivera. Rivera, il numero dieci perfetto e per difetto. I sostenitori affermano che trasformasse in oro tutto quello che gli passava fra le dita dei piedi. Chi gli preferiva Mazzola, lo accusa di essere un miraggio di bambagia, una principessina tracotante. I suoi ripetuti dribbling a rientrare, a rimpiattare, a caracollare, con la suola della scarpa, con la punta del piede, a centrocampo, al limite dell’area sono una carezza e una canzonatura; i triangoli chiamati, i lanci e i colpi di tacco, sottilissime tele di ragno; i suoi tiri sono la lingua pungente di una vecchia serva. Prolifico e solo apparentemente superfluo, discontinuo e determinante, bandiera discussa, genio compreso, è con lui che consacra il ruolo e la definizione ufficiale del fantasista.
Ed eccoci a Roberto Baggio: in ordine di tempo l’undici, il dieci, il nove e mezzo, il diciotto. Forse l’unico numero dieci che merita un discorso paradossale: Baggio è un numero dieci ancor prima di esserlo, ma smette di esserlo nel momento in cui tale numero gli viene messo addosso. Ha la classe del dieci ma il suo carattere gli vieta di impossessarsene vita natural durante. Tutti, lui compreso, lottano contro la minaccia dell’uno e dello zero. Gliela strappano dalla carne. Gli offrono altre maglie. C’è chi ha detto che se avesse avuto anche il carisma per portare il numero dieci, la distribuzione dei poteri dei numeri del calcio avrebbe subito un collasso senza pari e il numero dieci sarebbe stato ritirato per sempre, da ogni competizione sportiva. C’è chi dice che il magnetismo del numero dieci, alla lunga, abbia agito su di lui come la kryptonite. Intervistato ai tempi della Juve trapattoniana afferma:
“Il mio numero preferito è il diciotto.”
Pochi anni dopo diventerà anche il suo numero di maglia. Un numero più originale, più docile e malleabile. Un numero più suo. Gli calzerà addosso come una corona di spine.
L’ascensione di Roberto Baggio, Mattioli 2011.