di abo
Siamo alla fine degli anni ’60, e Brian Clough, football genius con un gloriosa carriera alle spalle (274 gol in 251 partite vestendo le maglie di Middlesbrough e Sunderland, ma con due sole presenze con quella della nazionale), si è riciclato come allenatore dopo che un brutto infortunio lo ha costretto ad abbandonare il calcio giocato.
Ora, scordatevi fin da subito l’agiografia: brusco, sboccato, capace di rendere le conferenze stampa inni al politicamente scorretto (celebre il “Cheating, fucking Italian bastards” con cui definì la Juventus dopo una semifinale di Coppa dei Campioni persa contro i bianconeri dal suo Derby County), Cloughie merita un posto d’onore nella galleria di bad boys che tanto affascinano il tifo britannico, siano essi made in England, come Gascoigne e Ince, o importati come Best, Roy Keane, Cantona, Di Canio e Balotelli.
Ed è proprio tra personaggi come questi che David Peace lo fa idealmente accomodare, con una narrazione che procede in serrata alternanza tra il passato – gli inizi di Cloughie sulla panchina dell’Hartlepools, la consacrazione su quella del Derby County, la sfortunata parentesi come allenatore del Brighton & Hove Albion – e un presente da incubo, i 44, maledetti giorni come manager del Leeds.
Già, il Leeds.
Lo sporco, sporco Leeds.
Una squadra di cui Clough odia la storia, lo stile, lo staff, il pubblico, e soprattutto l’ex allenatore, quel Don Revie passato ad allenare la nazionale inglese ma che sembra non aver mai abbandonato lo stadio di Ellan Road.
Revie è una presenza ossessiva che aleggia negli spogliatoi, nei corridoi, sulle tribune, e soprattutto nel cuore dei giocatori, e rappresenta tutto quello che Clough odia nel calcio: i piagnistei e le proteste, le astuzie e gli interventi ben oltre i limiti del regolamento, l’appello alla sfortuna dopo la sconfitta, la scaramanzia.
Senza l’aiuto di Peter Taylor, braccio destro che lo ha sempre seguito in passato e con cui si ricongiungerà in futuro, rinchiuso in un albergo di lusso lontano dalla famiglia, Clough è solo contro tutti, ubriaco, insonne. Pur di parlare con qualcuno ordina da bere dalla sua stanza d’albergo, e costringe i camerieri a fermarsi per un brindisi.
Il Leeds, nel frattempo, segna poco e vince ancor meno, tanto che l’esonero si fa sempre più inevitabile.
Con la burrascosa fine della sua avventura sulla panchina degli Whites, finisce anche il pezzo della storia di Brian Clough che Peace ha scelto di raccontare. Non fanno parte del romanzo i successivi, sfavillanti successi con il Nottingham Forest, che Clough allenerà per ben 18 anni (e con cui conquisterà due Coppe dei Campioni consecutive), perché questa è la storia di una caduta fragorosa, che nessuna futura vittoria riuscirà a far dimenticare, per lo meno non a chi ne è stato protagonista.
Chi ama il calcio non potrà che gustarsi le comparsate di George Best e Bobby Charlton, di Eusebio e di Altafini, respirare l’atmosfera dello spogliatoio, ascoltare il rumore della folla giubilante dopo una vittoria, e la desolazione di uno stadio vuoto dopo una sconfitta.
E anche chi pensa che il calcio si riduca a 22 giovanotti in pantaloncini che rincorrono un pallone farà fatica a non riconoscere – e qui passatemi la trita banalità – che quando il racconto ha il taglio giusto il gioco può diventare una calzante metafora della vita, in cui, come scriveva Puzo, a volte si vince, a volte si perde, a volte piove, ma in cui il carisma di gente come Cloughie emerge con forza, e non tramonta più.
Brian Clough è morto nel 2004. Dopo la pubblicazione nel Regno Unito de Il maledetto United nel 2006, la sua famiglia si è lamentata del ritratto un po’ spigoloso che emerge dalle pagine di Peace. A giudicare da filmati come questo sembra che, almeno in quanto a tempra, il Cloughie di Peace e quello reale si assomiglino parecchio.
E se ancora non vi ho convinto e proprio non volete leggere il libro, potete sempre ripiegare sul film, con uno strepitoso Michael Sheen.
[Di questo magnifico libro segnaliamo anche le recensioni di @zeropregi sul suo blog e di Fabrizio Gabrielli]
Tra le altre, spesso accusato di razzismo. Vero o meno non l’ho ancora capito, ma il “mito” spesso oscura la realtà oggettiva.
Libro di Peace comunque molto bello. 😉
sembra che Cloughie abbia detto, un giorno, a Justin Fashanu, fratello del Fashu più celebre, il primo (e a memoria forse unico) calciatore che abbia mai fatto outing sulle sue preferenze sessuali: “dimmi, Justin, se vuoi una pagnottella dove vai? dal fornaio, vero? E se vuoi un cosciotto d’agnello? dal macellaio, vero? E allora mi spieghi cosa cazzo ci vai a fare in quei fottuti locali per finocchi?”.
Cloughie. Per dire.
Brian Clough non era razzista. Era un sincero socialista e credeva nell’uguaglianza tra gli uomini, c’è una bellissima foto in cui BC partecipa con un volto intenso e appassionato, a una marcia di minatori (il lavoro che facevano suo padre e suo nonno) durante le proteste dell’84. Certo, era un uomo del suo tempo, era omofobo come probabilmente lo erano i militanti emiliani del PCI degli anni ’50 (la vicenda del suo rapporto con Justin Fashanu è piuttosto indicativa, a riguardo), ma fu lui a portare il grande Viv Anderson a vestire, primo nero della storia, la maglia bianca della nazionale inglese.
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