Comincia tutto con una monetina.
A Napoli è la sera del 5 giugno 1968. Un arbitro tedesco dal nome impronunciabile si è appena infilato nel tunnel degli spogliatoi dello stadio San Paolo. Alla sua destra il capitano sovietico, profilo minaccioso e un nome che pare fargli il verso; dall’altro lato quello italiano, sguardo fiero da eterno ragazzo sognante. Quando i tre riemergeranno da quel tunnel i settantamila tifosi assiepati sugli spalti capiranno al volo chi, tra Unione Sovietica e Italia, si giocherà a Roma il titolo di campione d’Europa contro la Yugoslavia, dopo soli tre giorni. Testa o croce. Esistere o svanire. Basta attendere soltanto qualche minuto.¹
Improvvisamente l’immagine si dissolve su quanto sta accadendo in un assolato pomeriggio fiorentino di 34 anni prima. Undici giocatori italiani, e altrettanti spagnoli, escono sfiniti dal rettangolo di gioco. Allo stadio Franchi si è appena concluso in parità l’incontro valido per accedere alle semifinali del primo Mondiale organizzato nell’Italia fascista. Centoventi inutili ed estenuanti minuti non hanno infranto l’equilibrio sancito dalle reti siglate nel primo tempo.
Molti dei trentacinquemila tifosi che defluiscono dalle tribune sanno che, l’indomani, torneranno in quello stesso stadio, per assistere a una replica che dovrà per forza dare un nome e un volto a vincitori e sconfitti.
Di nuovo giugno 1968. Roma, questa volta. Di giorni ne sono passati cinque. I primi novanta minuti non sono serviti a nulla. E neppure protrarli di altri trenta, scanditi dallo stillare dell’acido lattico.
Ventidue giocatori entrano lentamente in campo, trasfigurati nel corpo e nello spirito dalla fatica accumulata. Anche gli spettatori paiono esausti di quel loro incessante tifare, apparentemente eterno e immutabile. Le gole sono secche, e di fiato per gridare ne rimane poco. Neppure l’arbitro è più quello del primo incontro.
“Solo il pallone sembra sempre lo stesso” – pensa, osservandolo, un ragazzo che da due anni si impone come il più forte attaccante italiano, meritandosi quella maglia da titolare negatagli tre giorni prima. Il sovrano di un’isola che ora sogna di conquistare un intero continente – “tu lo colpisci, e lui va dove deve andare“.
Uno stacco brusco e ci ritroviamo sospesi in cielo. E’ una sera di fine giugno dell’anno 2000, ad Amsterdam. Sotto di noi, mentre il sole va spegnendosi all’orizzonte, l’interno di un gigantesco stadio illuminato a giorno, acceso di una tinta uniforme. Migliaia di persone sovrastano il campo di gioco composte in un’immobile e circolare distesa arancione. Solo qualche sporadica macchia d’azzurro ne disturba la quiete.
Dieci giocatori, vestiti del colore di quella folla immensa, sono radunati al centro del campo, mentre il loro capitano s’incammina verso la porta. Pregano perchè il rigore che lui sta per calciare non infranga l’angosciante stallo tra la loro nazionale e quella italiana, che perdura da più di due ore, nonostante tutto. L’avversario che lo ha preceduto ha appena realizzato il suo: non resta che fare altrettanto. L’uomo raccoglie la palla e la posiziona sul dischetto. Alla sua sinistra si staglia immobile lo scuro profilo dell’arbitro, mentre davanti a lui, ancorati alla linea di porta, lo fissano spiritati gli occhi del portiere.
“Non ha mai sbagliato due calci di rigore nella stessa partita.” – riflettono i suoi compagni in simbiosi con la moltitudine silente che li avvolge – “Non può accadere proprio ora“.
Quel silenzio sfuma nel rombo di un gigantesco aereo di linea pronto al decollo, sulla pista di un aeroporto spagnolo. I giocatori della nazionale italiana sfilano rapidi per raggiungere la scaletta che li condurrà a bordo. Non hanno nessuna voglia di parlare con i giornalisti che li circondano, e di lì a poco glielo diranno chiaramente.
Uno di loro si attarda, bloccato dalla vociante ressa che lo assale. Il fischio assordante dei motori aumenta, riportandolo con la memoria indietro di qualche giorno.
Davanti ai suoi occhi si ridipinge la macchia azzurra che abbandona in fretta un terreno di gioco. Lui è parte di quella mischia insofferente. Alle sue spalle, a colorare il verde dell’erba, è rimasto un gruppo di giocatori increduli e festanti: le maglie che indossano hanno appena concluso imbattute la loro prima avventura in un Mondiale di calcio.
Quei fischi assordanti non sono per loro. A sentirli, forti e chiari, sono i giocatori della nazionale italiana, che si sono appena qualificati al turno successivo con la vergogna di tre pareggi consecutivi, nel girone considerato il più facile dell’intero Mondiale. Due reti in tre partite: una in meno di quella miseria e sarebbe toccato a un umiliante sorteggio stabilire chi, tra Italia e Camerun, sarebbe dovuto tornarsene a casa. Forse a una monetina.
La voce stridula di un giornalista, poco prima dell’imbarco, lo sottrae a quell’oscuro ricordo. Un annoiato incrociarsi di sguardi, un microfono offerto al fiato, uno sgradevole sorriso. Una domanda che non pretende risposta.
“Pablito, cosa ci andiamo a fare a Barcellona?”
¹ L’arbitro e i tre giocatori citati sono, rispettivamente: Kurt Tschenscher, arbitro di calcio tedesco, Albert Shesternev e Giacinto Facchetti, capitani di Unione Sovietica e Italia nel 1968.
(*) Gli incontri cui fa riferimento il testo sono i seguenti:
05/06/68 Semifinale Europei – Italia vs URSS 0 – 0 (dts) – Italia vincente al sorteggio
31/05/34 Quarti di finale Mondiali – Italia vs Spagna 1 – 1 (dts) (Ferrari, Regueiro)
01/06/34 Quarti di finale Mondiali (bis) – Italia vs Spagna 1 – 0 (Meazza)
08/06/68 Finale Europei – Italia vs Yugoslavia 1 – 1 (dts) (Dzajic 39, Domenghini 80)
10/06/68 Finale Europei (bis) – Italia vs Yugoslavia 2 – 0 (Riva 12, Anastasi 31)
29/06/00 Semifinale Europei – Olanda vs Italia 0 – 0 (1 – 3 dcr)
23/06/82 Primo turno Mondiale – Italia vs Camerun 1 -1 (Graziani 61, M’Bida 62)
(**) Entrambe le immagini sono tratte da interleaning.tumblr.com. Nella prima la nazionale italiana schierata prima del fischio d’inizio della finale contro la Yugoslavia, nell’Europeo del 1968. Nella seconda, al termine dell’incontro il capitano Giacinto Facchetti alza il trofeo appena conquistato.
Quella monetina proprio non voleva saperne di spaccare il pareggio tra Italia e URSS: infatti cadde di taglio, e restò in equilibrio tra i due capitani e l’arbitro, che cercava invano di ricordare se il regolamento prevedesse un caso simile. Poi si assunse la responsabilità di ritirare la moneta: peccato, avrebbe potuto decretare un’inedita finale con tre squadre in campo, una a difendere il blocco NATO, una in rappresentanza del Patto di Varsavia, e la terza come campione del Movimento dei paesi non allineati.
Da allora il regolamento, riscritto, prevede che l’arbitro debba prendere al volo la moneta e schiacciarla sulla propria mano, invece di lasciarla cadere a terra.
I più vecchi e scaltri narrano che la monetina “di cui sopra” si sia andata ad infilare sotto la pedana della doccia, nello spogliatoio dell’arbitro.
Facchetti e Shesternev cercarono in tutti i modi di recuperarla.
Immaginate quei tre uomini carponi a cercare di infilare una mano sotto la pedana di legno.
Ma tant’è, ci rinunciarono.
L’arbitro, spazientito, disse il più classico dei “ghe pensi mi” e andò per un altro sorteggio. Che fu, come dicono gli storici del calcio, a favore degli azzurri.
I più cinici raccontano che a decisione presa, alcune ore dopo, il custode del campo smontò la pedana.
Si trattò chiaramente di un complotto contro-rivoluzionario ordito dalla CIA.
La meravigliosa ipotesi di una finale a tre (Italia, URSS, Yugoslavia) con CIA e KGB a spartirsi gli arbitri, e magari il terzo incomodo a spuntarla, avrebbe conquistato la fantasia di Osvaldo Soriano.
E’ bello vedere come il racconto sospeso del volo di quella monetina riesca a contenere narrazioni tanto vivide di un’intera epoca. Molto al di là dell’apparente semplicità dell’evento calcistico.
E come la mancata spettacolarizzazione, allora possibile, di quel lancio, riesca a dare vita a un’aneddotica praticamente infinita.
Oggi, con l’elargizione forzata del tutto-sempre-visibile, lo spazio per il racconto, che è sempre in qualche modo personale, si è di molto ristretto. Non ci resta che sgomitare come veri difensori del nostro spazio di gioco.
Grazie a entrambi.