[Riceviamo e pubblichiamo dallo scrittore Alberto Prunetti, redattore di Carmilla e autore di “Amianto”.]
Ho cominciato a dar calci al pallone per non cadere sull’asfalto di un campo da gioco operaio. Per rimanerci in piedi, anche se ero solo un bambino, in quel “campo”. Un campo senza erba o terra, un campo d’asfalto. Cadere significava rovinarsi. Io sono riuscito a cadere una sola volta e mi sono guadagnato una frattura guarita in novanta giorni tra gesso e fasciatura stretta. Aggiungo solo che il bastardo che mi ha falciato non era un avversario ma un compagno di squadra a cui non avevo passato la palla. Ancora oggi è uno dei miei migliori amici.
Questo campo d’asfalto, che produceva vittime quotidiane, era proprio all’interno di una fabbrica dismessa, l’ex-Ilva di Follonica. Forse giocare in una ferreria era un modo per abituarsi da piccoli agli infortuni sul lavoro. Si giocava nel campo d’asfalto dell’Ilva per pomeriggi interi. Fuori dal rettangolo infuocato, oltre il perimetro di biadoni e cardi selvatici che crescevano fino al muro liminale dello stabilimento industriale, avevano luogo risse e scene efferate. Ragazzetti con scarti di età di 6-7 anni si alternavano nel gioco e nelle punizioni fisiche. Per evitare di essere malmenato, dovevi saper giocare a pallone. Solo così potevi rimanere nel rettangolo da gioco, dove ci si picchiava ma almeno non si arrivava a darsi i cazzotti sul muso.
Ogni ora si rifacevano le squadre. I grandi ti mettevano in fila, i capitani prendevano i migliori. Gli altri rimanevano a bordo campo auspicando un infortunio per poter entrare nell’arena, coltivando la speranza di non essere colpiti dalle biciclette che di tanto in tanto venivano gettate da fuori la linea bianca sulle teste di quelli che si azzuffavano dietro al “tango” sgonfio. Le mischie erano furibonde. Ogni tanto la mattanza si ricomponeva, soprattutto quando arrivavano i giornaletti pornografici. Allora tutti smettevano di inseguire il pallone, i giocatori si disperdevano nel verde circostante, sfogliando in solitudine i fotoromanzi di Pontello con le punte dei piedi che sfioravano il muro della fabbrica e le spalle rivolte al campo da gioco.
Dovevo giocare bene a pallone, non c’era scelta.
Avevo anche cominciato a giocare nelle giovanili del Follonica. Prima c’era stato il calcio per strada, col supertele che rimbalzava sulla saracinesca di casa facendo incazzare i vicini; poi il calcio a ricreazione, col foglio di carta aggomitolato e scocciato o con il guscetto di plastica gialla dell’ovino di cioccolato. Adesso, a otto anni, mi trovavo in un contesto giovanile organizzato: era finita l’era dello spontaneismo. Il nome della squadra sapeva di avanguardia operaia. Una sigla impronunciabile, Nagc, semplificata in Nagghe, che andava sciolta a pugno chiuso: Nucleo allenamento giovani calciatori. Tre allenamenti settimanali, più la partita il sabato pomeriggio nel campionato provinciale. Disciplina ferrea. Nessun dubbio ideologico. Nei pomeriggi liberi dal calcio della polisportiva, tornavo a giocare nel calcio alla Jena Plissken dell’ex-Ilva. Quello che mi piaceva davvero, perché più adrenalico e sciolto da ogni regola.
Nel calcio delle giovanili della polisportiva avevamo allenatori comunque simpatici: qualche dopolavorista delle acciaierie di Piombino (la nuova Ilva) e anche un vecchietto che aveva giocato in serie A (peccato che era un emigrato di ritorno e la serie A era quella australiana). Gli allenatori utilizzavano un fastidioso gergo da caserma stalinista e avevano poche idee di calcio. Io ero alto e magro, avevo “fisico”, mi dicevano, ma ero lento. Quindi dovevo fare il difensore, terzino destro, poi stopper. Alla fine libero, perché avevo la pedata potente. L’idea tattica era che prima di tutto dovevo “spazzare” il pallone cercando di buttarlo fuori campo, possibilmente colpendo il genitore di qualche bambino avversario; secondo, dovevo fare male al mio avversario. Nei calci d’angolo, dovevo conficcargli i tacchetti delle scarpe sopra il piede, per evitare che staccasse di testa. Quando l’arbitro era girato, dovevo fingere di sputare addosso al giocatore che marcavo e insultargli la mamma, così che se mi dava un colpo dopo lo buttavano fuori. Materazzi doveva avere il mio stesso allenatore.
Quando andavamo in trasferta, infilati in pulmini Volkswagen a cantare una versione porno-scurrile di Bandiera rossa, finivamo a giocare nei paesini dove vivevano i nostri nonni, i paesini dei minatori dell’entroterra maremmano. Il problema era che lassù sui colli la rivalità era maggiore. Appena arrivati ci prendevano a sputi e i nostri babbi cominciavano a fare le risse coi babbi degli altri bambini della squadra avversa, con i quali erano imparentati. Mia mamma non capiva mai perché mio padre si portasse l’ombrello anche col sole, quando andava a vedere le mie partite.
Gli allenatori erano dei grezzi sessisti. Il classico discorso prepartita di motivazione era: “ragazzi, chi ce l’ha più lungo se lo tira”. Un’ammissione dell’inutilità di qualsiasi preparazione tecnica. Se ti facevi male e chiedevi la sostituzione, il mister ti diceva: “fatti una sega e ti passa”. Solo il vecchietto “australiano” era più simpatico e umano, e si trincerava dietro all’età e all’arteriosclerosi quando lo sorprendevano a fare piccoli trucchi, tipo far entrare dalla panchina un dodicesimo piccolo calciatore mentre l’arbitro era girato.
In ogni campo c’era il custode, che ci tirava i palloni e ci preparava il tè nel dopo partita. Il tè era così buono che bastava come ragione sufficiente per andare agli allenamenti. L’altra ragione erano i giornaletti porno che il custode teneva nel suo stanzino sotto le copie del Guerin Sportivo, ma quando cominciammo a rimanere sfiancati e a perdere tre partite di seguito, tolsero i giornaletti.
Quanto agli spogliatoi, erano delle cloache immonde che puzzavano sempre di orina. C’erano dei lavabi da cui tracannavamo litri d’acqua come cavalli all’abbeverata e dei cessi alla turca perennemente sudici. Le panche in legno non bastavano mai per tutti mentre nelle docce c’era sempre qualche idiota che ti pisciava addosso. Non mancavano atti di esibizionismo: un ragazzino era così orgoglio dei propri peli pubici, di cui difettavano tutti i suoi coetanei, che smise di esibirsi solo quando qualche anima buona gli fece notare che i peli gli facevano scomparire il pisellino.
Ma veniamo ai miei tre gol. Due li ho fatti in un colpo solo. Una doppietta contro il Venturina. Ero alto e avevo un mister progressista, che nei calci d’angolo appunto mi faceva “salire” in avanti. La sciabolata dal corner mi si schiantò addosso, alzai un piede, sdrusciai la palla che si infilò nella porta avversaria con un effetto bizzarro. Dopo dieci minuti un altro calcio d’angolo: saltai, chiusi gli occhi, sentii che la palla mi aveva fatto la “masa” (cioè aveva sfregato il cuoio capelluto) e che intorno a me tutti avevano alzato le braccia. Due reti assurde in cui non avevo avuto alcuna responsabilità.
Il terzo gol importante l’ho realizzato qualche anno dopo, ormai adolescente, in un torneo estivo di calcio a 5, all’epoca – metà anni Ottanta – il più seguito dell’Alta Maremma: il torneo di Gavorrano, dove si trova la più grande miniera di pirite d’Europa (gloria e vanto locale, ma non più sfruttata). Era il torneo delle fabbriche: le acciaierie di Piombino, la Tioxide e la Solmine di Scarlino, le ultime miniere aperte e qualche cava e opificio minore organizzavano questo torneo con i figli degli operai. Gli allenatori erano dei cassaintegrati che prendevano qualche extra per il lavoro come mister. C’era un torneo juniores, dai 10 ai 14 anni, dove giocavo io, e quello ordinario, dove giocavano i giovani operai. Io ero nella squadra della Tioxide. Eravamo il fior fiore del calcio giovanile follonichese e massacrammo tutti gli avversari. Nel calcetto mi facevano giocare più avanti. E anche se ero più piccolo d’età degli altri giocatori, macinavo gioco. Vincemmo sempre e senza problemi, a parte la finale, che rimaneva sullo 0 a 0. Andammo ai rigori, che non erano facili perché si doveva tirare nella porta vuota, piccola, da hockey, da metà campo. Sbagliarono uno dopo l’altro sia i miei compagni, sia gli avversari. L’ultimo che doveva battere il rigore ero io. Tirai una sassata senza neanche guardare la porta. Andò dritta come un fuso nella rete. Mi sollevarono in trionfo, la coppa delle acciaierie era nelle miei mani. Subito dopo la doccia ci fidanzammo con le ragazzine del Bagno di Gavorrano. Io fui fidanzato dalle altre ragazze con una tipa magra, con cui avevo scambiato qualche parola mangiando lei un gelato, io un panino con la salsiccia alla brace. Dal momento del nostro fidanzamento, ci evitammo meticolosamente.
Tornai a giocare nel calcio del campo d’asfalto, dove ormai avevo una reputazione e nessuno mi molestava. Andavo con mio padre a vedere il campionato livornese di prima categoria e facevo il raccattapalle quando giocava il Follonica in casa. Mi piaceva ascoltare quel che succedeva in panchina. L’allenatore del Follonica si addormentava spesso. Poi si risvegliava di colpo, lanciava un bestemmione trionfale e diceva qualcosa, solo per farsi sentire dal pubblico che seguiva la partita. Ce l’aveva sempre con un calciatore pelato. Era l’unico che segnava, era il mitico Dea, una delle mie leggende giovanili assieme all’argentino Ganem, storico “dieci” maradoniano del Follonica. Il Dea era un altro che si faceva il culo in fabbrica e che giocava di forza, eppure il mister gli diceva sempre “Sei un duro!”. Una volta il mister ─ era un altro “macinato grosso” che mio padre idolatrava perché era suo compaesano, di Rosignano Solvay, e aveva giocato negli anni Settanta in serie A nel Verona e il mi’ zio c’aveva anche la sua figurina dell’album Panini in un cassetto ─ dopo essersi addormentato in panchina si svegliò di colpo e per dimostrare di star seguendo la partita esplose in bestemmie: “Diolopicardo, pelato, sei un duro!”. Il pelato era in panchina accanto a lui. Rispose: “Mister, ma oggi non gioco…”. “Fa’ una sega, sei un duro uguale..”, replicò il mister, prima di riaddormentarsi pacifico.
Passavano gli anni e naufragava l’idea pedagogica di mio padre: non sarei mai diventato un calciatore professionista e non avrei potuto mantenerlo. Gli toccava continuare a lavorare in fabbrica e al massimo avrei potuto giocare nel campionato dilettantesco nel tempo libero dal lavoro in fabbrica. Ma mia madre aveva altri progetti e riuscì a depistarmi dall’ITI o dall’IPSIA, il professionale per l’industria, per infilarmi in un liceo. Lì nessuno ti picchiava ma i liceali giocavano a pallone per divertirsi, non per sopravvivere. Ovviamente non era un gran gioco. Ero più bravo della maggior parte dei ragazzetti, anche di quelli più grandi. In breve divenni un goleador, ma i gol del liceo erano gol facili, senza asfalto, senza pirite, senza sputi e babbi con gli ombrelli. Si giocava contro nessuno, o contro gente che di sport faceva la vela o l’equitazione. Gol che non valevano, rispetto a quelli veri, quelli del calcio delle Colline Metallifere e dell’Ex-Ilva. Nel torneo scolastico segnavo in tutti i modi, prendevo il pallone e lo mettevo dentro al sacco. Ma non ero felice, sapevo che si giocava solo per fare bella figura con gli altri.
A dire il vero ormai del calcio mi ero rotto le scatole. Ero in piena adolescenza, leggevo libri, avevo delle idee e non sopportavo l’atmosfera da caserma stalinista che regnava nelle giovanili. Non andavo agli allenamenti per uscire con le mie amiche. Alla fine non mi chiamarono più. Provai in seguito un paio di volte a giocare nel calcio Uisp, ove c’era gente più grande di me, con meno fiato ma ignoranti di brutto. Lì si giocava davvero. Era il calcio dei contadini, che in Maremma erano una forza egemonica sindacalizzata dalla Coldiretti. Di nuovo sulle Colline Metallifere, col pubblico di cacciatori che la domenica pomeriggio, di ritorno dalla cacciata al cinghiale, parcheggiavano gli apini e i fuoristrada dietro la porta per godersi la partita. Abituato al fareplay del calcetto pulito del liceo, mi prese da cani vedere un mio compagno di squadra prepararsi a calciare un rigore mentre un gruppo di cacciatori in mimetica, supporters della squadra locale appostati dietro la rete, puntavano contro di lui il fucile armando il cane. Ovviamente la buttò fuori.
Quella fu l’ultima volta che mi divertii col pallone. Poi smisi di preoccuparmi per un po’ del calcio, con l’eccezione di un torneo in quarta liceo in cui vinsi il titolo di capocannoniere scolastico (ma veramente c’era chi era incapace di calciare con l’esterno del piede). Alla fine mi stufai di tutto: leggevo libri su libri marinando sistematicamente la scuola e al calcio non pensavo più.
Fino a quando non si ammazzò Guido. Guido era uno di quelli che facevano i cosiddetti “dirigenti” nella polisportiva. Dimenticate ogni ruolo manageriale: erano volontari che davano una mano. Facevano funzionare la struttura calcistica, strappavano i biglietti alle partite, tenevano in mano la bandiera da guardalinee negli incontri delle giovanili e ogni tanto, quando se ne ricordavano, la alzavano pure, guidavano i pulmini quando andavamo in trasferta. Dicevano che Guido fosse “un buco”, un omosessuale. Non capivo bene cosa volesse dire. Guido entrava sempre negli spogliatoi, parlava ─ come tutti ─sempre e solo di sesso. Diceva che masturbarsi faceva bene, che ci sarebbe diventato più lungo. Ci faceva degli scherzi stupidi, tipo tirarci il ghiaccio spray degli infortuni sul pisello. Non aveva mai dato noia a un bambino, e poi cosa cazzo voleva dire “pedofilo”? Guido era un amico gentile, non si era sposato, o anzi, forse era divorziato, e la domenica pomeriggio se non c’era la partita lo ritrovavamo al cinema: strappava i biglietti anche lì, ma a noi ci faceva entrare gratis. Un amico gentile, appunto, meno ignorante dei mister che ci dicevano “fatti una sega” o “chi ce l’ha più lungo se lo tira”.
Un giorno, quando ormai ero all’università, apro il giornale e scopro che un bambino delle giovanili diceva di essere stato molestato da Guido. L’episodio era stato denunciato qualche settimana prima, ma quando uscirono i titoli Guido non resse e si buttò dalla finestra, morendo sul colpo. Adesso, dopo tanto tempo, tutti dicono che Guido non aveva fatto niente. Che i bambini possono diventare cattivi e che spesso sono impressionati da tutti questi discorsi sui mostri e sui pedofili che si fanno in televisione. Che quel bambino che denunciò Guido era vittima non di Guido, ma delle prese di giro degli altri bambini, e siccome lui abitava lontano ed era l’ultimo a essere accompagnato a casa, i suoi amici gli dicevano che Guido se lo faceva. E allora, per farla finita con le prese di giro, aveva pensato bene di riportare queste voci ai suoi genitori.
Ormai è troppo tardi per Guido, che tutti soprannominavano Pepe, e che quando il mister grezzo della prima squadra voleva far correre di più i suoi ragazzi gli urlava contro “Forza, correte, che vi devo mette il pepe in culo?”. Ormai i giorni in cui si andava a giocare cantando Bandiera rossa dentro al furgoncino e un tipo poteva anche essere omosessuale e parlare di sesso con noi bambini senza che scattassero denunce sono lontani. Ora se non hai una laurea in scienze della formazione e rivolgi la parola a un bambino che non è tuo figlio rischi l’arresto.
E allora, ripensando a tutte queste cose, i miei tre gol nei campetti davanti alle cave e sopra le miniere li dedico proprio a Guido, e vaffanculo al mondo.
Alberto Prunetti