[Riceviamo e pubblichiamo]
di Antonio Spera
Nabokov scriveva “Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta”. Allo stesso modo e con la stessa danza orale, tra lingua e denti, molti Presidenti di squadre di calcio dicono la parola “Tra-ghet-ta“. Non è un nome proprio di persona e non è un vezzeggiativo. E’ un verbo. Un imperativo per la precisione. Di sensuale c’è molto poco, di malizia adolescenziale ancor meno. Ma la seduzione che certi Padroni del vapore pedatorio subiscono è la stessa. Traghetta il traghettatore. Il calcio non ha mai avuto dimestichezza con la questione di genere. E quindi traghettaci, uomo. Mai un mezzo di trasporto, nemmeno dei più usati, è diventato così celebre. Dalla semantica alla semiotica. Il tutto con un unico scopo: accompagnare il presente in attesa di stagioni migliori.
Storia malinconica quella degli allenatori-traghettatori. Spesso sono imberbi neopatentati usciti dal laboratorio delle teorie pallonare di Coverciano. Altre volte sono veri carneadi del calcio. Traghettare è il contrario di pianificare. Il traghettatore è una dama di compagnia chiamata per combattere la solitudine di una primavera priva ormai di qualsiasi ambizione. All’allenatore-traghettatore non si chiede amore ma affetto. Non gli si chiedono risultati ma posizioni tranquille e senza ansie.
Al traghettatore non si chiede nemmeno l’età o il suo passato.
Il traghettatore navigato non conosce matrimoni ma solo fugaci relazioni per non più di qualche mese. Pensa a Nedo Sonetti.
Il traghettatore meno esperto deve essere erculeo e di bella presenza, per evocare un immaginario capace di distogliere dalle ansie della quotidianità. Tanto è per pochi mesi. Poi resta l’affetto, mai l’amore. Pensa all’aeroplanino Montella.
Qualcuno più famoso e più vincente si presentò al capezzale per riconoscenza alla propria società di appartenenza sentimentale, reinventandosi promotori di strane forme di eutanasia calcistica. Pensa al secondo Arrigo Sacchi o a Luisito Suarez per l’altro lato della madunnina.
E poi ci sono i giovani. Presi, sedotti e lanciati. E qualche volta bruciati. Mezzo patentino nella tasca, qualcuno con il blasone della carriera a far più da fardello che da paracadute, e pronti a smarcarsi da eventuali co-responsabilità o a ribadire con piglio: “Non sono un traghettatore”. Ripensa all’aeroplanino Montella. Il tutto per la gioia di scafati commentatori sportivi che sghignazzano dalle loro vacue tribunette domenicali.
Cosa si chiede ad un “allenatore – traghettatore”? Accompagnare mano nella mano la squadra ad un fallimento stagionale annunciato, lanciare qualche giovane meglio se straniero, epurare le mele marce dalla squadra, riabilitare i giocatori con gli ingaggi più alti così da poterli piazzare ai primi caldi di giugno, essere carne fresca per bulimici tifosi.
Che si chiede se la squadra che rilevano ambiva a qualche titolo importante? Il minimo sindacale: un piazzamento di rilievo per ripartire di slancio l’anno dopo.
Se la squadra ambiva ad un piazzamento di rilievo? Una salvezza tranquilla.
Se la squadra si ritrova nella melma per non retrocedere: il miracolo. “Per la città, i tifosi, per questi ragazzi”. Così si dice.
Se la squadra è virtualmente retrocessa? Passare delle serene domeniche in attesa della fine. Mostrando il cuore e per qualche machista da seggiola numerata, perché no, anche gli attributi.
La mia infanzia ha un nome su tutti: Giorgio Rumignani da Gemona del Friuli, classe 1939. Dalla sua prima esperienza nel 1978 a Varese non si è mai seduto più di un anno sulla stessa panchina. Ha allenato il Mestre e il Mestrina, lontane ormai dalla memoria calcistica come gli scudetti interrotti per la grande guerra, poi giù a Teramo e Palermo, su di nuovo a Piacenza passando per Barletta e San Benedetto del Tronto. Ma anche Lucchese e Francavilla al Mare. Fino ad approdare nella stagione 1992-93 ad Andria che all’epoca non aveva ancora il prefisso da fumetto della Marvel, BAT, ma si chiamava Fidelis. L’uomo del Nord recupera una squadra derelitta che si trovava in B un po’ per caso e un po’ perché iniziava la moda dei fallimenti societari e la radiazione dai tornei. Ad Andria nessuno chiede la salvezza. Esser lì è già un sogno. I metodi da “stratega dei poveri” trasformano quattro brocchi in quattro brocchi e un paio di schemi e molto impegno. Una rarità per Andria. Conquista 10 punti in 7 partite, quando tanti calcoli non si facevano e la vittoria valeva due punti.
Allenatore, padre, inventore, restauratore di autostima. Fino ad arrivare a quel 14 Giugno del 1993, quando a 11 minuti dalla fine Vittorio Insanguine da Monopoli, modesto centravanti di 95 KG nonché mestierante nel finibusterrae calcistico pugliese, si avventa su un pallone messo in area da Roberto Ripa. La Fidelis Andria sponsorizzata dall’omonima banca cittadina, supera la Reggiana capolista da mesi promossa in Serie A. Il miracolo è servito. Nessuno crede realmente a tutto questo. Un uomo preso dal Friuli e catapultato tra ulivi e sogni di autonomia provinciale, esulta come un qualunque Oronzo Pugliese. Il traghettatore, chiamato dall’Andria per un mesto ritorno alle origini umili della C dopo quello spregiudicato tuffo nel calcio dei soldi, si trasformò in protagonista indiscusso. Genius Loci dal profumo di Tocai. Rumignani rispettò il contratto. Si impegnava in triplice copia per “7 mesi di contratto e niente ambizioni”. Ma sul contratto non c’era scritto “niente follie”.
Bell’articolo su una particolarissima figura propria del calcio, complimenti. Un solo dubbio: con vittorie da due punti, in 7 partite come si possono fare 16 punti?
@ RedTaras : In effetti col calcolo non ci siamo.
Rimanendo nell’ambito pugliese, qualcuno ha mai tenuto il conto di quante volte Catuzzi ha preso in mano “la Bari” a stagione in corso?
@RedTaras e @Nico R:
Si trattava di un refuso che il nostro staff ha prontamente corretto!
A me piaceva pensare che quell’Andria lì fosse talmente forte da fare già tre punti a vittoria 🙂
Bell’articolo, ma Rumignani secondo me è un condottiero senza macchia più che un traghettatore.
Riporto questo articolo della Gazzetta dello Sport del 01-12-1999:
Andria-Ravenna 3-2:
“Rumignani dio del sole: che scioglie la neve, che da’ un cuor di leone all’ Andria, che illumina con le sue mosse tattiche una partita incredibile. Si’ , perchè se questa gara, in queste condizioni, si giocasse mille volte, 800 volte il successo andrebbe al Ravenna, 199 sarebbe pari e una volta sola vincerebbe l’ Andria. Questa volta, la piu’ importante. E il bello è che la vittoria è comunque meritata: perchè i giocatori andriesi tirano fuori il carattere e un paio di invenzioni del ritrovato Florijancic. Poco? No, tantissimo, contro un Ravenna che, pur penalizzato dalle assenze di 7 titolari (5 squalificati, 2 infortunati), mostra di essere una grande squadra. Domina il gioco, ma va a infrangersi contro una barriera che non è solo calcistica e tecnica. C’ è dell’ altro. E vediamolo questo “altro”. Alle 10 di mattina, il campo è coperto di neve. Rumignani va a spalarlo di persona insieme a 50 tifosi. La voce si sparge in citta’ e ne arrivano altri 150. Rumignani dirige le operazioni e mette al lavoro anche due giocatori, Ambrogioni e Franchini, li’ per un allenamento extra. Poi va dalla squadra e dice: “Ora tocca a voi, siate degni di questa citta”