Siediti come un sultano tra le lune di Saturno e prendi l’uomo solo, molto in astratto: ti sembrerà un prodigio, una grandezza e un dolore.
(Hermann Melville – Moby Dick)Sarebbe bello che i sogni non si avverassero mai.
Si continuerebbe a sognare all’infinito.
(Obdulio Varela)
Io non sono uno di loro. Non ho mai ucciso nessuno, in fondo.
Ma lo so bene cosa rimane addosso a un assassino, incollandosi alla sua coscienza arroventata di rimorso. Non è il senso di colpa che accompagna l’immane gesto, non l’irreale colore del sangue fatto sgorgare, e neppure la strenua resistenza di chi si è aggrappato alla vita, straordinariamente vigile per quanto il delitto abbia potuto coglierlo di sorpresa. A tormentare il sonno di un assassino non sarà l’osceno pallore che riveste un corpo spogliato di ogni residuo calore, per quanto possano popolarsi i suoi incubi di quella mostruosa visione, per mille e mille notti ancora. Non varranno i tormenti di quei fantasmi un solo grammo di quanto davvero ne trafiggerà incessantemente la memoria, lacerando le invisibili piaghe dell’anima. Chiedetelo, a uno cui sia capitata la disgrazia di ammazzare un suo simile assistendone l’inquieto morire, cosa di tanto tremendo rimane a memoria della più infausta delle umane tragedie. Chiedetegli quale ricordo ancora vivido ne segni irrimediabilmente l’esistenza.
“Quel silenzio” – vi sentirete rispondere.
Ma come posso conoscerle tutte queste cose, io che non ho mai ucciso nessuno?
Cosa può saperne un vecchio calciatore uruguayano, di quel silenzio?
Nel ritiro di San Paolo le notizie delle loro assordanti vittorie ci piovevano addosso con la terribile efficacia di pietre spezzate. Rosari recitati dai giornalisti di tutti i paesi, compreso il nostro, stavano lì a ricordarci che l’incerto e difficile cammino che eravamo sul punto di concludere ci avrebbe solamente condotto ai piedi della più inaccessibile delle montagne sacre, di cui non avremmo che intravisto l’irraggiungibile cima, oltre le nuvole. Prima di cadere.
Nessuna ascesa poteva salvarci dal venire scaraventati ai suoi piedi, numerati e presentabili resti di undici celestiali sacrifici umani, perfettamente aderenti al ruolo che ci era stato assegnato da chissà quanto tempo, e che nelle ultime settimane avevamo solamente avuto modo di imparare a memoria. Tutti i miei compagni ripetevano le preghiere che avremmo dovuto declamare, onorati di salire per ultimi sull’aureo altare venerato da un intero popolo in festa. Terrificanti liste di santi a esprimere la forza mistica di un destino che non conosce ritardo alcuno, posto a locomotore di un treno senza stazioni, lanciato sulla polvere di ogni nostra residua illusione: Ademir-Jair-Baltazar- Ademir-Alfredo-Baltazar- Ademir-Zizinho-Ademir- Ademir-Chico-Ademir- Ademir-Maneca-Chico- Parra-Jair-Chico- Chico-Ademir-Zizinho.
Ve la sapreste immaginare, voi, una squadra capace di segnare ventuno reti in cinque partite, giocate nell’arco di venti giorni esatti contro le più forti nazionali al mondo? Uno straordinario strumento generante felicità collettiva in grado di viaggiare a una media superiore a una rete al giorno, comprendendo anche quelli in cui non si gioca? Io no, io non me la sono mai saputa immaginare, neppure se ci ho corso attraverso. Quei numeri non avevano nessuna importanza per me. E neppure i nomi di quelli che li avevano realizzati. Io non facevo altro che pensare a lui.
Era il pensiero di incontrarlo che mi tormentava, il racconto della sua misura a sorprendermi nel cuore delle notti insonni che precedevano la finale, impedendomi di dormire avvolto nel tepore di una rassegnazione condivisa. Non lo raccontai a nessuno, forse nemmeno a me stesso: mi avrebbero preso per pazzo, allora. “Concentrati sulla partita, pensa agli schemi, escogita un modo per fermarli” – mi sarei sentito dire, e mi sarei io stesso ripetuto, inferocito con la mia divorante ossessione.
Ma una parte di me, la più reale, sapeva perfettamente che, una volta lì dentro, avrei dato tutto me stesso per trovare il coraggio di sostenerne lo sguardo sconfinato, mi fosse quell’unico gesto costato la pena di marcire nel suo informe ventre pulsante di morte terrena e gloria eterna. Ai miei compagni importava solamente della partita da giocare sul campo, della bella figura che avremmo potuto fare, lottando contro la forza innaturale di quegli avversari. Di onorare la maglia, la nazione, i tifosi, e di tutte le altre stronzate che ci raccontiamo ogni volta per evitare di chiederci cosa siamo veramente, cosa ci facciamo a inseguire un pallone lungo gli anni migliori della nostra esistenza. Senza trovare mai il coraggio di guardare in fondo al buio della nostra anima, prima di aprir bocca e farne uscire quella nuvola vuota.
Per me era diverso. Non era una sconfitta onorevole quella che cercavo, e neppure l’immagine di una semplice, imponderabile vittoria. Tutto quello che chiedevo a me stesso era la possibilità concreta di affrontare la sua leggenda dal basso della mia umana ambizione, e di poterlo dominare. Se solo fossi stato in grado di attraversare indenne il deserto della mia mortale fragilità, come mai mi era riuscito prima, me lo sarei potuto raccontare per il resto della vita. Ripetere a me stesso che ce l’avevo fatta. Sarei riuscito, nel lampo di un singolo e incommensurabile istante, a convincermi di non essere soltanto uno stupido burattino calato sul palcoscenico di uno spettacolo che non mi riguardava, come troppe volte avevo creduto.
Violare quel tempio senza eguali rappresentava la mia sola e irripetibile occasione per realizzarmi come l’Obdulio che avevo sempre sognato di diventare, fin da bambino. Non si trattava di una vittoria, di una rete, o di un’esultanza irriverente. Non si trattava di un trofeo da innalzare agli occhi della mia umorale presunzione. Era piuttosto l’esatta sensazione che solo al cospetto della sua spropositata misura, in quell’occasione che non si sarebbe mai più ripresentata, mi sarei potuto confrontare con il significato di un’intera esistenza.
Non si trattava del Brasile. Si trattava di quello stadio.
Il giorno della finale non tremai nel vedere le sue lingue bianche di spuma sibilare quanto quelle di mille draghi inferociti, avvinghiati nel supremo maelstrom che ci avvolgeva.
Non appena i brasiliani segnarono la prima rete, mi convinsi che tutto era scritto senza che nessuno lo avesse ancora saputo interpretare. Mi bastò gettare uno sguardo fiero al cuore di quell’informe esplosione circolare di carne e cemento, per capirlo. Lui stava aspettando noi. Non era la Celeste la vittima sacrificale che il mondo avrebbe dovuto indicare per tutto quel tempo. Erano loro.
Assiepati sulle sue gradinate come batterie di animali covanti l’odio e lo sberleffo, divorati dall’ansia di una vittoria svuotata del senso che investe ogni conquista, prostrati ai piedi della loro insostenibile superbia, l’infinita marea brasiliana non ci considerava degni della minima attenzione: noi eravamo nient’altro che virgole lungo il discorso della Storia, che volevano vedere scritta davanti ai loro occhi spiritati.
Il Maracanã li stordiva con l’assordante sibilo della sua implosione estatica ed allucinatoria, impedendogli di percepirsi nella solitudine che li avvolgeva. Quella solitudine antica, così simile alla mia; ma senza che loro fossero pronti ad affrontarla.
Trovai, semplicemente immaginandone l’estensione, il tempo necessario per fissarli uno ad uno, abbandonandoli alla loro insostenibile condanna. Gli undici giocatori brasiliani che correvano in campo non erano che vuoti simulacri, sorretti dal furore di quella moltitudine di anime, illuse sull’immortalità cui dovevano andare incontro, e divenute improvvisamente consapevoli di quale sarebbe stato il prezzo da pagare. La fine del sogno. Tragica, irrimediabile e fatale. Il lato oscuro del Mito pretendeva le sue vittime, e solo l’assordante fragore generato impediva loro di percepirsi tali.
Quando Ghiggia segnò la nostra seconda rete, compresi le conseguenze del mio gesto. Assediato dall’incalcolabile silenzio che ne seguì ebbi chiaro all’istante che quella sarebbe stata la mia più grande impresa, il peggiore dei miei peccati, e la più dolorosa delle condanne divine. Non c’era nessuna venerazione, nessun rispetto, in quel silenzio. Ma non avreste trovato neppure un grammo di odio nei nostri confronti. Solamente vi giaceva la disperazione di un popolo che aveva perduto per sempre il suo sogno più grande. E io glielo avevo ucciso.
Quel silenzio sarebbe rimasto a ricordarmelo, per sempre.
Già, quel silenzio.
Sarà lui a violare le vostre notti di assassini perseguitandovi fin nei più remoti pensieri, per il resto della vita. La memoria di quella breve ma incancellabile sospensione di ogni respiro vi dissanguerà lo spirito esasperandovi la coscienza, nel caso in cui ve ne rimanga una a vigilare sull’umana ragione. E’ lui che vi ha permesso di scoprirvi colpevoli dell’irreversibile vuoto generato e, con esso, dell’enormità senza pari del male che avete messo al mondo, pulsante nel nulla che vi ha divorato le membra ancora tremanti. Apprendisti stregoni del niente, di fronte alla quiete sconfinata di un cadavere vi siete scoperti nudi e, al tempo stesso, investiti del più smisurato e blasfemo dei poteri. Padroni assoluti di un destino, non avete saputo fare altro che cancellarlo da questa terra. E’ quel silenzio a racchiudere la vostra sconfitta, incisa sulla natura di ogni effimero potere: la consistenza dell’esistente, su cui vi siete sognati onnipotenti per qualche istante, vi ha restituito nel vuoto di uno sguardo l’imperturbabile indifferenza dell’inorganico.
Quel nulla riposerà per sempre di fronte ai vostri occhi colpevoli, a raccontare il niente che siamo, anticipando soltanto di qualche tempo l’orrore della sua venuta. Voi l’avete evocato, e lui rimane a ricordarvelo.
Non potrà mai esserci condanna peggiore.
Mi scoprii solo con la coppa tra le braccia senza sapere cosa fare. Finalmente trovai il capitano dell’Uruguay, Obdulio Varela, e gliela consegnai praticamente di nascosto dagli occhi di tutti. Gli diedi la mano senza dire una parola.
(Jules Rimet)Mi ricordo due cose, i lacci delle mie scarpe e il brindisi di Gambetta con lo champagne dentro la Coppa. I lacci delle scarpe perché per almeno cinque minuti, cinque minuti che non sono mai passati, ho chinato la testa guardandomi e piedi e rivedendo, all’infinito, gli episodi di quei novanta minuti.
(Obdulio Varela)
Obdulio Varela nasce nel 1917 nel barrio di La Teja, a Montevideo.
Inizia la sua carriera di giocatore nei primi anni Trenta con il Deportivo Juventud, con cui debutta in prima squadra nel 1936. Due anni più tardi passa ai Wanderers di Montevideo grazie a cui si fa conoscere, e viene quindi acquistato dal Peñarol, squadra con cui vince 6 campionati.
Di ruolo mediano, El Negro Jefe, come veniva chiamato dai compagni, debutta con la nazionale uruguaiana, meglio nota come Celeste, il 29 gennaio del 1939; due anni dopo ne diventa il carismatico capitano. Nel 1950 conquista il Campionato Mondiale che si tiene in Brasile, contribuendo in maniera decisiva al successo, dove segna una formidabile rete con un tiro da 40 metri contro la Spagna, nella prima gara del girone conclusivo, evitando una sconfitta alla sua squadra. È considerato all’unanimità il giocatore fondamentale nella partita decisiva contro il Brasile, dove l’Uruguay ottiene una vittoria considerata impossibile, conquistando la sua seconda Coppa Rimet.
Prima dell’incontro finale i fortissimi brasiliani, supportati dal pubblico di casa, avevano vinto quattro gare e pareggiata una soltanto, segnando 21 reti e subendone solo 4. L’Uruguay era passato come primo nel suo girone eliminatorio giocando una sola partita, vinta 8 a 0 con la Bolivia (le altre due squadre del gruppo si erano ritirate). Qualificatosi per il girone finale all’italiana che assegnava il titolo, l’Uruguay aveva pareggiato contro la Spagna e ottenuto una sofferta vittoria con la Svezia. Per contro il Brasile aveva liquidato i primi con un 6 a 1 e questi ultimi 7 a 1.
Nella partita decisiva, giocata allo stadio Mário Filho, meglio noto come Maracanã, davanti a più di 150mila tifosi verde-oro, guidato dallo spirito indomito di Varela l’Uruguay ribalta l’1 a 0 del Brasile con le reti di Schiaffino e Ghiggia, precipitando nell’incubo un’intera nazione.
Ancora oggi il Maracanazo, o Disastro del Maracanã, viene considerato il peggiore trauma sportivo della storia.
[Obdulio] passò quella notte bevendo birra, di bar in bar, abbracciato agli sconfitti, ai banconi di Rio de Janeiro. I brasiliani piangevano. Nessuno lo riconobbe. Il giorno seguente fuggì dalla folla che lo aspettava all’aeroporto di Montevideo, dove il suo nome brillava in un enorme cartellone luminoso. In mezzo a quella euforia, riuscì a passare inosservato travestito da Humphrey Bogart, con un cappello calato fin sul naso e un impermeabile con i risvolti sollevati.
(Eduardo Galeano – Splendori e miserie del gioco del calcio)
(*) L’immagine finale è tratta da http://ferreira-caricature.blogspot.it/2012/06/la-de-ayer-obdulio-varela-el-negro-jefe.html. Le altre da http://www.orgullo-celeste.com.
Video:
Bibliografia di riferimento:
Osvaldo Soriano – Fútbol. Storie di calcio
J.A. Bueno e M.A. Mateo – Historia del fútbol
Eduardo Galeano – Splendori e miserie del gioco del calcio
Alex Bellos – Futebol: The Brazillian Way of Life
Placar Magazine n. 828 – 7 apr 1986
Link utili:
Brasile – Uruguay, 1950: come nacque la madre di tutte le sconfitte – francorossi.com
Brasil ’50, Obdulio: “Ganamos con la mente” – heraldo.es
Disastro del Maracanã – Wikipedia
Campionato Mondiale di Calcio del 1950 – Wikipedia
[Questo è il terzo capitolo della Mitografia calcistica. Se ti è piaciuto, puoi leggere anche El Trinche: la leggenda di Tomàs Felipe Carlovich e Arthur Friedenreich – Il sogno perduto di El Tigre.]
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