[Riceviamo e pubblichiamo dagli altri anni Ottanta questo ricordo-racconto orgogliosamente provinciale di abo]
La prima volta che ho messo piede in uno stadio è stato in una data imprecisata dell’86. Avevo 7 anni e non ricordo chi fosse l’avversario, tutto sommato ininfluente. Ero lì per confermare che avrei tifato per la squadra che il luogo di nascita e l’ereditarietà mi proponevano, la squadra che l’anno prima aveva vinto uno scudetto clamoroso e inaspettato, a cui io non avevo assistito, e che si stava lentamente riprendendo dalla sbornia.
I mastini, i gialloblù, l’Hellas Verona.
In campo con addosso pantaloncini minuscoli e magliette sintetiche, molto prima dei bragoni all’inglese e dei tessuti tecnici traspiranti; a quei tempi, il sudore te lo tenevi addosso come un medaglione con cui misurare quanto avevi corso, quanto avevi faticato.
Al bar dello stadio si vendevano prodotti ormai estinti come l’aranciata Billy – credo nella pubblicità ci fosse Costacurta, ma forse è un falso ricordo suggerito dall’omonimia – e le chewing gum Wrigley’s, che perdevano il gusto solo a guardarle. Si vendevano anche Fonzies e Caffè Borghetti, a posteriori più darwinianamente adatti alla sopravvivenza.
Comunque, dopo lo scudetto ’84-’85 c’era aria di smobilitazione, in campo – anche gli eroi venivano venduti, invecchiavano, si ritiravano – e sugli spalti, dove l’estrema destra da lì a qualche anno avrebbe azzerato le gerarchie esistenti e monopolizzato il tifo, svilendo l’immagine e la reputazione di una città intera.
Quello che restava del trionfo dell’anno precedente, così vicino eppure già un po’ sbiadito come prevede la spietata obsolescenza dei successi sportivi, erano i ricordi e i racconti di chi c’era.
L’anno scorso l’era n’altra roba…
E tra queste storie, già assurte al rango di mito dopo pochi mesi, ce n’era una ripetuta come un mantra che parlava di un bomber danese, di una sua galoppata furibonda, di un dribbling secco in cui perdeva la scarpa, e di un gol segnato a piede scalzo.
Il fatto che fosse stato segnato alla Juve (“La Vecchia Signora”, che a Verona è altresì nota come “La Ladra”), ossia a un gigante del calcio italiano, rendeva il tutto ancor più memorabile.
Niente VHS, niente DVD; quel gol io non l’avevo mai visto, ma lo sentivo raccontare così spesso, da così tanta gente, che nella mia mente di bambino lo vivevo, ancora, e ancora, e ancora.
Veronesi tutti matti, dice il detto.
E il nostro Preben Elkjaer, soprannominato “Cavallo Pazzo”, con quel gol era riuscito a eguagliare il mito di Zigoni, l’altro folle dio del folle Olimpo gialloblù – uno che dieci anni prima non disdegnava di accomodarsi in panchina infagottato in una morbida pelliccia, e che durante i ritiri passava il tempo libero sparando ai lampioni con una Colt, tanto per capire il tipo.
Il coro Elkjaer sindaco e le magliette con la medesima scritta sono sopravvissuti fino ad oggi, come Fonzies e Caffè Borghetti.
Certo, per chi non è tifoso dell’Hellas (o, peggio ancora, per chi è tifoso della Juve) quel gol senza scarpa viene facilmente relegato al rango di curiosità o nota di colore.
Eppure.
Eppure quel gol, e per estensione quel campionato, per un certo verso sono stati uno spartiacque. Perché da allora, e sono passati 27 anni, da allora solo un’altra volta una provinciale – termine che in gergo calcistico forse non ha la patina deteriore che assume nel linguaggio comune – si è cucita il tricolore sulla maglia (la Sampdoria nel 1991), soffiandolo al blasone delle grandi città.
E allora forse non è eccessivo vedere in quella cavalcata di Preben “Cavallo Pazzo” Elkjaer, che qualche anno dopo ho finalmente avuto modo di vedere anch’io e che oggi si trova su YouTube, in quella progressione testarda e incosciente e scalza, uno dei più fulgidi (e forse degli ultimi) gesti di ribellione allo strapotere delle “grandi” che questo sport abbia saputo esprimere.
Perché vedete, che Davide stenda Golia è già di per sé un evento raro.
Ma che ci riesca senza fionda – o senza scarpino –, be’, quello è un prodigio.
abo