I portieri di Francia ’98

di Marco Mongelli

Era l’estate torrida del 1998 e io, novenne, guardavo “Vieri, Vieri, tiro, sì”, infilare la temutissima Norvegia del gigante biondo ToreAndreFlo. In porta c’era Grodas, ovviamente.
Era anche l’estate in cui era appena finita la mia prima e fortunatamente ultima (l’anno dopo mi diedi al basket) esperienza in una scuola calcio. La mia ossessione per la figura del portiere cominciò lì. Sì certo, direte voi, c’era Benji Price e, inconsapevole, anche Saba. Ma c’era soprattutto il fatto che io ero disastroso coi piedi. Durante un allenamento molto sconfortante presi inaspettatamente l’iniziativa e chiesi al Mister di andare in porta. Parai due rigori e fu subito mitologia. Che una serie di cavolate in fila demistificarono immediatamente. Questo per dire che il mio approccio col calcio è sempre stato problematico, anti-poetico, ossessivo.


Quell’estate infatti, mentre i miei preparavano i bagagli per le consuete ferie salentine, io ero impegnato nella stesura di un quaderno dedicato a Francia ’98. Lo facevo per ogni evento sportivo che attendevo con ansia e che poi seguivo attentamente. Lo facevo ogni anno per il Mondiale di Formula 1 – sperando che Schumacher sfatasse il tabù di Villeneuve padre –, lo facevo per gli Europei e i Mondiali di calcio, persino per le Olimpiadi di Sidney. Era un “quaderno Wikipedia”, diciamo così, o meglio, data l’epoca, un “quaderno Televideo”. Erano annotati dati, formazioni, stadi, albo d’oro etc, con una cura e una precisione che non mettevo per nient’altro. La fatica per la sua compilazione era tanto inutile quanto corroborante. All’impossibile immedesimazione tecnica sostituivo l’illusione di una competenza specifica, giornalistica e affabulatoria.
Il mio più grande successo, che tacitamente vantavo solo con me stesso, era di aver imparato a memoria tutti i portieri delle 32 squadre partecipanti a quel mondiale.
In ordine (di squadra per girone, ovviamente) erano Taffael, Ben Zekri, Grodas, Leighton, Konsel, Songo’o, Tapia, Pagliuca, Schmeichel, Barthez, Al-Deayea, Vonk, Zdavkov, Rufai, Chilavert, Zubizzareta, De Wilde, Kim Byung-Ji, Campos, Van der Sar, Koepke, Abedzadeh, Kralj, Keller, Mondragon, Seaman, Stelea, El Ouaer, Roa, Ladic, Barrett, Kawaguchi.
Tra le tante leggende, personaggi stravaganti ed estrosi, il mio portiere preferito era il freddo e anti-showman Koepke. Non scherzava il teutonico, non si buttava se non ce n’era bisogno, non concedeva nulla allo spettacolo, non si avventurava palla al piede. Completo e non ridondante, era il portiere che avrei voluto essere. Perché a dispetto della giovane età, o proprio soprattutto per quella, il calcio per me era una cosa seria. Seria nella sacrosanta esclusione quotidiana dal consesso di amici (chi è più scarso non gioca, in qualsiasi sport), seria nella religiosa visione, nelle emulazioni sul pavimento, nella compilazione del quaderno. E serio nella sconfitta, nell’errore imperdonabile che fa segnare gli avversari.
È cominciato allora, a ben guardare, l’interesse statistico e storico per il calcio e per lo sport. Tutte le storie di calcio di cui mi sono sempre nutrito avidamente, mandando a memoria date, eventi e volti, avevano come primus imprescindibile il dato numerico e storico. Non “quando la Juve ha vinto la Champions…”, ma “quando, nel 1996, la Juve ha vinto la Champions battendo in finale l’Ajax detentore della coppa (aveva battuto il Milan 1-0, gol di Kluivert, l’anno prima) ai rigori (goal di Ravanelli e solita esultanza, poi pareggio di Litmanen, rigore decisivo di Jugovic), bene proprio quell’anno lì, in porta c’erano Peruzzi e Van der Sar”. Al pari di un libro, di un film, di un disco, una partita va collocata nel suo tempo, messa in relazione con quello che c’è prima e che c’è dopo, e valutata secondo i propri principi, non perché epifenomeno di qualcos’altro, spesso inconsciamente giudicato più significativo.
Se c’è poesia nel calcio essa è nella logica imprevedibile e inafferrabile che lega gli eventi, i risultati, le vittorie e le sconfitte. Rito ripetuto e irripetibile come ogni evento sportivo, il calcio per me ha sempre vissuto di risonanze e parallelismi tutti interni ad esso, senza alcuna mitografia ulteriore. Il calcio è una cosa seria e bellissima non soltanto perché possibile metafora di altro, ma perché ci riguarda e ci appassiona.
E questo basta perché si ricordino le maglie di quei 32 portieri, i loro nomi e le loro gesta.

[Marco Mongelli fa parte della redazione di 404 FNF, “rivista online di indagine, analisi e inchiesta”, animata da una comunità di under 30.]

3 thoughts on “I portieri di Francia ’98

  1. federico calcioromantico

    > La fatica per la sua compilazione era tanto inutile quanto corroborante

    Ho compilato a mano quaderni grandi e piccini con risultati dalla A alla c2, dalla champions’ alla coppa italia per 12 anni. E poi mondiali e europei dal 1990 al 1998 e campionati di F.1 dal 1991 al 1997 e Barcelona, Atlanta e Sydney. Senza tralasciare le olimpiadi invernali e i mondiali di atletica, quelli di nuoto e la coppa del mondo di sci. E quando rivedo il mio archivio penso che sia la parte migliore di me e che ho smesso perché non volevo diventasse più grande di me.
    Ora in un blog di calcio scrivo epifanie di quei momenti perché come dici tu
    > Se c’è poesia nel calcio [e nello sport] essa è nella logica imprevedibile e inafferrabile che lega gli eventi, i risultati, le vittorie e le sconfitte.

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  2. Pingback: I portieri di Francia ’98 | 404: file not found

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