Calcio a pochi BIT [parte 2]

[Riceviamo e pubblichiamo. Si conclude con questa innecessaria disamina sugli aspetti etnografici e guerrafondai di SWOS il racconto del futbol pixelato dell’autore di “Sforbiciate”. La prima parte la trovi qui]

di Fabrizio Gabrielli

Oggi, a ripensarci, mi sembra cristallino che gli aspetti di SWOS che più colpivano l’immaginario dei suoi giocatori, o almeno il mio, che ne vellicavano le vis più squisitamente intellettuali, fossero solo contingentemente calcistiche. E c’è di più: solo contingentemente videoludiche.

Contingenze Videoludiche

Ho sempre avuto l’impressione che SWOS fosse uno strumento etnologico magniloquente, soprattutto per quel che riguarda l’interpretazione del meticciato.

(Esporrò di seguito una teoria elaborata nel corso degli anni, tutt’altro che improvvisata dunque, della quale rivendicando la paternità mi assumerò ogni responsabilità).

Lontano anni dalla personalizzazione esasperata dei tratti somatici e tricotici di ogni singolo sgambettante personaggio delle nostre virtuali evoluzioni calcistiche, SWOS aveva il potere magico (e tranciante) di ridurre l’intero ecumene calcistico a tre grossi sottogruppi etnici: i bianchi, i neri, i biondi. Alcune forme di meticciato erano ancora lontane dall’apparire (un Sibusiso Zuma, o un Djibril Cissé, i capelli blu di Nakata ai Mondiali francesi o quelli verdi di Taribo West). Tutte le altre venivano risolte con una disarmante facilità.

Carlos Valderrama, ad esempio, era insindacabilmente trigueño, seppur biondo. Abel Xavier, il difensore portoghese che sarebbe stato poi protagonista in Italia, a due tempi distantissimi tra loro, col Bari e la Roma: anche lui biondo, ma nero, e quindi di conseguenza bianco e biondo.

La biondità, in SWOS, era la chiave per scardinare il portone d’accesso ai giardini pensili dell’albionicità.

Di contro, ogni incarnato olivastro che fosse coronato da capigliature scure si vedeva annoverato nella macrocategoria dei bianchi o dei neri a seconda che il giocatore in questione fosse nato al di sopra o al di sotto della linea di demarcazione dell’Equatore.

SWOS, insomma, a modo suo, contribuiva alla nostra Organizzazione del Mondo.

Biondità come chiave per scardinare il portone d’accesso ai giardini pensili dell’albionicità

L’altro aspetto di SWOS che stupisce, retroattivamente, non foss’altro per la sua forte connotazione pionieristica, è la capacità che i programmatori del gioco hanno avuto nel creare un’epica metanarrativa, dai risvolti storico-politici, che trascendesse la semplice emulazione del gioco del calcio (qualcosa di simile ma al contempo diverso, più mattacchione, sarebbe riuscito ai programmatori di Pro Evolution Soccer con l’introduzione della possibilità di customizzare i calciatori con acconciature afro, con le capigliature dei personaggi di Tekken III, occhiali da sole e simili trivialità).

Ilford dista da Woodstock trentacinque minuti di macchina, traffico permettendo.

A Woodstock è nato Winston Churchill, che non ci stanchiamo di citare ogni qualvolta il nostro calcio incrocia i tacchetti con quello britannico per la celebre frase “Gli Italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre”. Ilford, invece, ha dato i natali a Jon Hare, fondatore della Sensible Software e deus ex machina di SWOS. Di Hare non ci sono aforismi degni di nota da tramandare ai posteri.

Va detto che a metà degli anni Novanta la Sensible Software si è costruita una certa reputazione, oltre che grazie a SWOS, con un gioco d’azione di simulazione bellica: Cannon Fodder.

In Cannon Fodder (carne da cannone, letteralmente, il nome con cui vengono additati soldati semplici lanciati in azioni in potenza suicide) il compito del giocatore era quello di guidare una bandaccia d’otto soldati, dalle fattezze simili a quelle dei calciatori di SWOS, nell’accomplishment d’una serie di missioni. La guerra non è mai stata così divertente, era il motto che campeggiava sulle scatole del gioco.

Il bias epico e metanarrativo di SWOS cui accennavo, dunque, risiede proprio, mi sembra di poter dire, nella reinterpretazione del celebre aforisma di Churchill che Hare e compagnia bella (o bellica, se così vi pare) seppero dare rilasciando due versioni di commistione calcistico-guerrafondaia per le quali le mot juste sarebbe stato: “Gli inglesi giocano al calcio come giocano alla guerra, e alla guerra come al calcio”.

In loving memory of the Christmas Truce:

In Sensible Soccer meets Bulldog Blightly, un omaggio all’ottantesimo anniversario di un celebre incontro calcistico avvenuto la notte di Natale del 1914 – passata alla storia come Christmas Truce – al giocatore è permesso manovrare gli eserciti di Inghilterra e Germania: ventidue omini agghindati come soldati di Cannon Fodder (a loro volta molto simili ai calciatori di Sensible, che erano poi soldati di Cannon Fodder in braghette, e il loop potrebbe durare a lungo) che si affrontano scalciando granate che di colpo esplodono, lasciando morti e feriti sul campo (di battaglia? di gioco?).

Nell’altra versione, passata agli annali come Cannon Soccer, calcio e storia si compenetrano a un livello superiore: è infatti prevista la possibilità di disputare tre diversi match in cui fa capolino, in un modo o nell’altro, anche nell’accezione Churchilliana, il concetto di guerra.

Il primo non è che una riedizione della versione già introdotta con SSmBB, con calciatori e granate, che ora con un colpo di coda storico viene ribattezzato Winston’s Wingless Wonders e si trova ad essere ambientato nel 1944.

Il secondo, intitolato Alf’s Amiga Powered Army, ripresenta – in un nostalgico bianco e nero – un superclassico del calcio europeo degli anni 60: le sfide lanciate all’Armata Invincibile di Sir Alf Ramsey dai nemici di sempre della Germania.

Il terzo, infine, un attualissimo (per l’epoca) incontro-scontro tra i leoni d’Albione capitanati da Gary Lineker e i teutonici col furetto Littbarski all’ala.

Se c’è un monito, insomma, che ai programmatori di Sensible World Of Soccer non è mai sfuggito, è che quando si ha a che fare coi tedeschi, in campo o sul campo, coi giapponesi, con gli italiani, coi videogiochi, per rimanere sulla cresta dell’onda, per stampigliare il proprio nome sulla lapide marmorea della memoria perenne, qualche volta bisogna inventarsi un colpo ad effetto, una strategia d’attacco raffinata.

O un gioco evergreen.

Scavata la propria trincea di lungimiranza nel cuore degli affezionati, bisogna stringere i denti e resistere. Ogni colpo è lecito, ogni carta quella giusta da giocare, costi quel che costi, foss’anche scomodando la nostalgia per i bei tempi andati, di fronte all’avanzata irremovibile delle truppe nemiche, della tecnologia, dell’accadì.

In amore, in battaglia, nel mondo variopinto dei videogiochi, insomma, vale sempre l’antico adagio: à la guerre comme à la guerre.

 

[La prima parte di questo reportage la trovi qui]

Fabrizio Gabrielli è l’autore di Sforbiciate.
Tifa Roma, è su Twitter e per il nostro blog ha scritto anche:
Panta Rio
Le favole non sempre son favole

 

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