Asfalto storico. Brasile-Italia quattrauno

1970 Brasile - Italia 4-1 - Il terzo gol di Jairzinho

di Matteo Gatto

Quattrazzero, quando si fa sul serio, l’Italia non perde mai. Magari se ne va malissimo, senza farti sognare per niente, senza passare i gironi, o si scioglie ai rigori, o s’involve davanti a una Corea a piacere. Ma quattrazzero non s’era mai visto. Bisogna ammetterlo: ha fatto molto male.

Infatti, in queste settimane, incapace di rialzare la testa e guardare avanti a un futuro dominato da iberici e sassoni, mi sono voltato indietro e ho affrontato il lutto in modo insolito: osservando il lutto di una generazione precedente. Un’altra batosta, l’Altra Batosta. Città del Messico, 1970, stadio Atzeca, Brasile-Italia quattrauno. Non so ancora bene perché, ma me la sono vista tutta, dagli inni all’invasione di campo. Ha riaperto un mondo e rivalutato una prestazione: avevamo giocato bene. Così mi è parso.

“Qui è quasi mezzogiorno. È una strana mattina grigia e uggiosa che esce da una nottata di pioggia e temporale”. E già dall’introduzione meteoropatica di Nando Martellini che si intuisce l’imminente pesantezza di questa giornata. D’altronde affrontiamo il Brasile 1970, “un paradigma irraggiungibile, la più grande squadra che il mondo abbia visto e che probabilmente vedrà mai” (Jonathan Wilson, Inverting the Pyramid, p. 253). E lo affrontiamo gravati da un’impresa che rientra nella top three dei maggiori sforzi psicofisici umanamente sostenibili assieme all’edificazione delle ziggurat e alla ricerca del parcheggio a Trastervere nei weekend: un supplementare con la Germania.

Inizia e penso: ora ci maciullano. Invece no, per niente. Siamo tosti, incarogniti, portiamo nomi spavaldi come Enrico, Giacinto e Tarcisio, e sappiamo quasi sempre cosa fare del pallone: cercare il modo più rapido per metterlo dentro. Mazzola iniesteggia dove e quando se la sente, il capitan Facchetti è elegantissimo, appropriatissimo, ambidestrissimo, e Jairzinho, che fin lì ha segnato in ogni benedetta partita, lo impensierisce con tanta fatica.

Lassù gioca Riva, un forte di spigoli, un poligono imprecisato e pericoloso. I suoi occhi fessure per arcieri, i suoi piedi mortai. Corre a gomiti larghi ed è lampante come sbattergli contro sia tremendamente doloroso. Dopo la prima spallata, a Piazza, centrale, si è forato un deltoide e glielo debbono rimpiazzare. Riva sembra un transformer, solo che non si trasforma mai: è sempre Riva. E, come se non bastasse, è anche il suo compleanno.

“Prima della partita mi dissi: ‘È fatto di carne e ossa come tutti gli altri’. Ma mi sbagliavo.” Da questa confessione di Burgnich avevo dedotto un Pelé sfavillante. E invece vedo Tarcisio che lo limita: neanche lui, detto Roccia, è fatto di carne e ossa. È ovvio che Pelé, essendo Pelé, segna lo stesso, ma è costretto a farlo su di un altro livello, quello celeste, perché al pian terreno non trova né palloni né spazi per giocare. Comunque siamo uno a zero per loro, la squadra paradigma, e non lo meritiamo neppure.

Ubriachi di tequila e solidarietà sudamericana, i messicani fiesteggiano: l’affinità socioculturale prevale su quelle aride questioni geografiche che vedrebbero il Messico collocato nella parte nord del continente. Il mondo, si ha l’impressione, tifa Brasile. Ma sticazzi del mondo, pensano gli azzurri mentre incarnano lo spirito nazionale, e ripartono come se nulla fosse accaduto, in denial, con Domenghini che vola sulla destra e scaglia un tiro che vorrebbe dire “ora passiamo in vantaggio”.

Ma il migliore, fin quando ce la fa, è quello col soprannome da ricetta siciliana: Bonimba. Se c’è un bene artistico da proteggere e rivalutare, oggi, nel mondo, è quello del gran gol nelle sconfitte storiche (Crespo col Liverpool, Quagliarella con la Slovacchia, Del Piero col Dortmund, De Rossi con lo United, ma ce ne sono milioni). Si tratta di perle che sono state ingiustamente rimosse assieme ai loro traumi sovrastanti, e invece dovremmo ripescarle e lucidarle perché, anche se evocano il maligno, la loro grandezza trascende il risultato. E quella di Boninsegna ai brasiliani rientra nella categoria. Che poi, concettualmente, è lo stesso gol che gli ha segnato Pablito dodici anni dopo, con un guizzo a devastare la loro spensieratezza da vantaggio acquisito ma non consolidato. Rubare palla a un brasiliano non è solo un lavoro di fatica: è richiesta l’immaginazione. Se Clodoaldo pensa un colpo di tacco, Bonimba lo presume, lo pronostica e ci va di mento, di giugulare, di mandibola. Quando Piazza gli si piazza innanzi lui lo spiazza con un tocco di sinistro in controtempo di una praticità stupenda che non c’è tempo di apprezzare, ci sono troppe improvvise novità: l’Italia è davanti al portiere; forse il portiere è in anticipo, chissà.

Brito lo sa, e interviene con urgenza per precedere Bonimba, il quale invece non è lì, ma alberga ormai nelle menti della linea difensiva carioca, ubiquo e crudele, a prevenirne le giocate con implacabile metodo. Così, sul rinvio brasileiro, Bonimba pone il piedino perfettamente in posizione e il rimpallo lo guida fino all’ultima difficoltà da superare, il mostro finale: Giggi. Riva c’è con tutti i suoi spigoli. Se per sbaglio lo sfiora, Bonimba sarà bucato e spruzzerà via in una pernacchia fluttuante nell’uggiosa atmosfera messicana. È in momenti del genere che si misura l’intesa di una coppia d’attacco. Uno deve tirare, l’altro deve scansarsi. Non tira nessuno e la figuraccia è globale. Tirano in due e alla figuraccia globale si aggiungono la barella e una tibia in frantumi.

Però s’intendono: Riva vorrebbe solo sparire, poi salta, goffamente, mettendo in atto il suo geniale piano B, improvvisato subito dopo aver compreso che la sparizione non gli sarebbe mai riuscita. Bonimba lo circumnaviga come si fa coi faraglioni, tira nella porta vuota e segna. Riva in realtà era saltato un po’ in ritardo, e quindi inutilmente, ma nessuno glielo farà notare. Anzi, quando durante i festeggiamenti va orgoglioso da Bonimba per mimargli il gesto, questi lo asseconda con una pacca sulla nuca e un tanti auguri. È pur sempre il suo compleanno.

Rivelino ha il baffo, il talento e l’empietà di Gian Maria Volonté. S’invola sulla fascia sinistra, subito dopo il pareggio italiano, con inedita ostinazione. Il Bertini, uno dei numeri dieci più improbabili della storia del gioco, lo ferma con un tackle pulito e violento che dà tanta soddisfazione. Passa qualche minuto e Rivelino rende la stecca al Bertini, ma la punizione è del Brasile, lancio per Pelé in area, stop perfetto, solo Albertosi da battere e, incredibilmente, è fine primo tempo. Con Pelé davanti al portiere. Cose d’altra epoca. Si va a riposo, senza tè caldo, forse con del mate, ma quindici minuti per gli azzurri non possono bastare. Siamo stanchi e nel secondo tempo il disegno tattico è prenderli a mazzate.

Li prendiamo a mazzate. La partita, già accesotta, diventa brutale. Il Brasile ottiene un numero impressionante di calci piazzati tirati tutti fortissimo da Rivelino e Pelé, uno all’angolino – ed è pronto Albertosi –, uno sulla traversa, tutti gli altri in curva. Teniamo così fino a venticinque minuti dalla fine, finché Gerson (o è Giuseppe Abbagnale?) non azzecca un sinistro bellissimo da fuori e, proprio quando stava iniziando a essere divertente, l’assediante paradigma si riporta definitivamente in vantaggio. Gli azzurri si guardano in faccia, si vedono stremati e abbassano la testa sapendo di aver perso. Da lì in avanti, giocano per perdere bene.

Minuti dopo Jairzinho la stoppa a seguire, Albertosi si sdraia sotto l’effetto di un peyote, immaginando di respingere un tiro che non solo non sarebbe andato in quella direzione, ma che non fu mai scagliato. Il Brasile è in gol con uno stop difettoso, che nel calcio è sempre un pessimo segno.

Clodoaldo dribbla e controdribbla nella sua metà campo come se Boninsegna fosse stato solo un brutto sogno. Nel frattempo Jairzinho, inseguendo una libellula sul prato, si è spostato a sinistra, con Facchetti che lo ha seguito e ha sguarnito un ettaro che è subito colmato da Pelé con un passaggio storico, perfetto, eseguito senza nascondere nemmeno un istante quanto quella storicità e quella perfezione gli stessero fluendo in corpo e uscendo naturali. Poi c’è il destro di Carlos Alberto e poi è tutto ultimato, è finito il calcio, quel calcio lì, brasiliano, estroverso, malandrino. Da lì in avanti sarà totaal voetbol e quella sì che è un’altra storia. Ma adesso i fotografi sono in campo, Pelé indossa il sombrero e gli azzurri vogliono già dimenticarsi ed essere dimenticati.

Invece penso sia il caso di ricordarli, soprattutto oggi che abbiamo la coda tra le zampe. Lo sappiamo che hanno perso, eppure se si osserva come abbiano saputo perdere, si finisce per voler loro un po’ di bene e per voler più bene all’azzurro in generale. Non è stata una batosta, anche se il tabellino dice il contrario. E io non lo so adesso se qualcuno, tra quarant’anni, alla prossima finale dove ci stritolano, guarderà Spagna-Italia quattrazzero e ci troverà una bella partita degli azzurri. Oggi non mi sembra possibile, ma chi lo sa. Quel che più probabilmente accadrà, invece, è che quella Spagna, quel brulicare di drappi rossi circostanti ma imprendibili che ci trasformarono, per una sera, in torelli stanchi e sfigati, sarà ricordata come la squadra manifesto di un’epoca. Sembreremo meno piccoli, a quel punto. Ci sentiremo meno soli. Siamo stati asfaltati, certo, ma quella sera a Kiev, così come all’Atzeca, stava passando la storia. E la storia viaggia veloce: quando può, purtroppo per noi, sceglie sempre l’asfalto.

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5 thoughts on “Asfalto storico. Brasile-Italia quattrauno

  1. Pingback: 1970 « eddaje!

  2. Antonio

    Essendo nato nei primi anni ’50 ed avendo seguito i mondiali messicani, posso ben dire che l’articolo offre una interpretazione magnifica della partita, motivando perfettamente tutte le cause della sconfitta.
    Veramente di gran livello è la descrizione delle doti tecniche e mentali dei 2 grandi attaccanti italiani:
    1. La scaltrezza e la visione della porta di Boninsegna, che mirabilmente emerge dallo scritto
    2. La grande forza fisica di Giggirriva-Rombo di tuono, che detiene il record dei gol segnati in nazionale. Egli esprimeva una fisicità “preventiva”: appena intravedeva la possibilità che la palla sarebbe potuta arrivare dalle sue parti, si metteva in una posizione tale, che il malcapitato e presto ammaccato difensore doveva cercare di superare ostacoli spesso insormontabili, per potersi avvicinare alla palla.
    Ah, se la Germania non avesse pareggiato allo scadere della mitica semifinale!
    Chissà quali mirabolanti magie avrebbe dovuto inventare Pelé, per battere quell’Italia rocciosa, che ha venduto cara la pelle, nonostante un quattrauno.

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  3. girolamo

    Però, diciamola tutta: quei supplementari con la Germania ce li siamo cercati. Italia-Germania poteva essere il furto perfetto: la Germania era senz’altro più forte di noi, ma in transizione tra la finalista del 1966 e la vincitrice de 1974, era meno scafata, meno esperta di un’Italia che, tra nazionale e club, chiudeva un ciclo di 8 anni nel quale di finali i nostri ne avevano macinate parecchie. Gol di Bonimba, “el loco” mantovano, catenaccione, Cera e Burnich a spazzare di randello, e Albertosi che si spara la partita della vita: con Riva e Boninsegna superiori ai rispettivi marcatori, e un’ala come Domenghini, doveva finire 2-0. Guaio era che in quella squadra, a far filtro a centrocampo, c’erano solo Bertini (che arretrato in mediana non poteva scagliare il suo tiro della madonna da fuori area) e Domingo, che si spolmonavano per 4: De Sisti metteva ordine nel mezzo, e va bene, ma Mazzola cazzeggiava illudendo con i suoi saltelli da ex-centravanti e vorrei-ma-non-posso-essere-Valentino-e-non-Sandrino (dei Mazzola, come delle patate, nel 1970 il meglio era ormai sottoterra); e Rivera, piedi da Apollo e anima da democristiano, era abituato a far faticare i proletati alla Lodetti, che era stato rispedito in Italia; e lì dietro, per un Cera che fu il miglior difensore del mondiale, c’era un Facchetti che spianava autostrade ai suoi avversari (e apriva voragini in area non andando a raddoppiare, come al 110′, quando Seeler e Müller presero in mezzo, di testa!, il nostro centrale mentre il bel Giacinto presidiava il nulla sulla sinistra dell’area). Lo scrisse Gianni Brera, alla vigilia della finale: se Facchetti gioca come in semifinale contro Jairzinho, siamo spacciati.
    Diciamola tutta: in panchina, a parte Rivera per uno dei centrocampisti, non avevamo altro, più o meno come contro la Spagna) da mettere dentro. Gli spagnoli ci hanno stesi con i titolari, e asfaltati con le riserve: i carioca non hanno usato le riserve perché avevano Pelé, che apriva spazi portandosi via i difensori, serviva assist, e segnava di testa contro Burnich. Ma anche lì, ce la siamo cercata: Valcareggi ordinò il cambio di marcatura su Pelé, come avessimo di fronte i pischelli messicani, e mentre Burnich e Bertini si scambiavano il ruolo i brasiliani se ne accorsero e batterono in fretta la punizione: scafati loro e polli noi, come sarebbe poi stato per l’1-1,
    merito di Bonimba che si beve Clodovaldo e Riva (!!), ma anche del vecchio Fulvio Bernardini, che più di dieci anni prima insegnò, prima alla Fiorentina e poi all’Italia tutta, a non fare mai passaggi orizzontali, perché sbagliandoli si tagliava fuori un intero reparto.
    E insomma, diciamola come va detta: Domenghini o Riva potevano segnare l’1-0, potevamo tenere duro più a lungo se l’altura non avesse asfissiato metà dei nostri, Albertosi poteva ripassarsi un fondamentale e non sbagliare l’intuizione di dove Pelé gli avrebbe messo la palla di testa: ma il fatto è che loro se la giocavano senza fretta perché avevavo Pelé, e noi non ce l’avevamo (come stavolta noi avevamo solo Pirlo, e loro Iniesta, Xavi, Xabi Alonso e Fabregas).
    Come poi abbiamo dilapidato il patrimonio di una squadra che se la poteva giocare alla pari anche con quelli più forti di noi nei successivi 4 anni, è un’altra storia.

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  4. roberto

    Commento casuale, ho letto il bellissimo resoconto dei Brasile Italia per errore. L’autore, chissà se lo leggerà mai, perfetto nelle descrizioni e nei paragoni, esalta l’ottima, si ottima, prova degli Azzurri. Con un paio di note, vanno ricordate le parate di Felix, la traversa di Riva e l’ultima occasione di Domenghini, stupenda azione corale dell’Italia che poi si spense. Facchetti, Boninsegna, Riva a fianco, Domenghini, ciabattata “cosmica” del Domingo e …deviazione sul palo di Brito o Piazza, Lambisce il palo, lo tocca, esce. E’ finita l’avventura, ma Azzurri grandi, per sempre e nella storia, comunque.

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    1. pietro palmi

      Bellissimo post, ad una partita storica. Sconfitta meritata ma giocata cono onore. Concordo che Rivelino e Pele’ si inventarono un cross al volo a campanile in girata e un salto pazzesco per fare quel gol. Boninsegna impallina il Brasile nello stesso modo che lo impallinera’ per 3 volte su 5 Rossi nell’82. Di Bonimpa se ne e’ sempre parlato poco… frequenta poco le TV e ha la lingua piu’ corta di Rivera che ad ogni intervista deve dirti che lui era il migliore (pero’ come qualcuno ha fatto notare a correre c’era sempre qualcun’altro per lui). Il Brasile del 1982 anche se tanto osannato, ancora non aveva imparato che nel mondo del calcio, qualcosa era cambiato con Cruijff e co., infatti perse anche nel 1986 sotto la France de Michel (ma questo e’ un altro argomento). D’accordissimo che la Germania O. merito’ quei supplementari… in 90 prima l’Italia “non gioco'” per 80 minuti circa, sparacchiando palle anche in tribuna. Si poteva tranquillamente finire quella partita 2 a 0 al 90…si decise che era meglio furbacchiare. I supplementari belli e storici, li pagammo con 4 a 1 contro il mai piu ripetuto 4-2-4 di Zagallo, contro gente che mette i brividi solo a leggere i nomi: Clodoaldo, Rivelino, Pele, Jairzinho, e Gerson che se anche assomigli ad un Abbagnale era devastante. Quella partita l’avremmo potuta benissimo perdere 2 a 1, ma la si perse con onore, e il post ne elenca i motivi. Il 4-0 contro i logorroici del calcio e’ stata una vergogna, cosi come il mondiale ancora perso qualche settimana fa. Ci siamo come al solito illusi che una semifinale vinta contro i crucchi potesse farci vivere di rendita per chissa quanti anni… che un guappetto di Bari Vecchia e un superpalestrato strampalato potessero essere il nostro Bonimpa e il nostro Rivera odierni. Abbiamo creduto che la riserva di Cabrini potessere essere il nuovo Michels o il nuovo Zagallo, quando in realta’ continuava a essere la riserva di Cabrini, con pretese filosofiche. piepalmi.blogspot.com

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